giovedì 15 settembre 2011

Lari e Penati

Immaginate un partito nato in un teatro sbrecciato per fare la Rivoluzione, che la Rivoluzione divenne anziché farla, per finire schiacciato dal peso lontano di chi quella Rivoluzione aveva fatto.
Quanto idealismo ci volle per tentare e quanto cinismo per resistere? Prevalse il cinismo progressivamente e non possiamo stupircene.
Ce ne voleva molto dopo Yalta, e Budapest, e Praga, e Kabul. Alla fine fu l'antidoto, sospetto, che permise di resistere all'89, che di quella Rivoluzione spense definitivamente anche il ricordo di ogni idealità.
Ci fu negli anni che seguirono chi abbracció il pensiero unico per colpa, per stanchezza, per convinzione, per liberazione, per desiderio di sopravvivenza.
In Italia si impose per vuoto di potere e bisogno di legittimazione, nella scomparsa all'unisono di chi il potere aveva sempre avuto e della legittimazione degli altri, che in sostanza era sempre stata in quell’altrove caduto.
Dove voglio arrivare con queste righe acerbe?
A Penati naturalmente.
Chi era Penati? Era il partito al Nord. E non lo era in quanto ricco di finanziamenti, nè in virtù di un oscuro quanto ipotetico sistema Sesto. Non si era comprato il partito, né credo altri lo avessero fatto per suo tramite. Semplicemente, temo, di quel partito era uno dei figli più brillanti, per quanto ora disconosciuto in poche ore.
Piaceva, Penati, perché sapeva essere lupo fra i lupi, perché intrecciava relazioni e rapporti, perché senza dubbio ci sapeva fare, e certamente, come usa dirsi, sapeva andarsi a casa.
Nello smarrimento di una sinistra subpadana lui aveva vinto oltre cortina, e questo senza dubbio doveva significare qualcosa. Esercita sempre un certo fascino chi pianta la bandiera in terra straniera e agli ufficiali al fronte certo non si fanno troppe domande, né ci si interroga troppo sul significato delle loro sortite e vittorie. E anche quando prima o poi suona la ritirata si concede l’onore delle armi e persino la gloria dello stato maggiore, soprattutto se quello stato maggiore è già ingombro di sconfitti.
In fin dei conti la vera ragion d’essere del centrosinistra che abbiamo alle spalle è l’adozione della sconfitta come forma mentis, dell’idea fissa che la vittoria appartenga all’avversario e si possa quindi ottenere essenzialmente sotto forma di mimetismo.
Se vuoi vincere devi sembrare come loro, se non vuoi sembrare come loro devi rassegnarti ad una vita di resistenza.
Penati era stato un maestro del camuffamento e aveva vinto nel cuore del campo nemico. Un maestro, degno di diventare il numero due del partito.
Per questo io credo che il problema non sia giudiziario, né etico, ma politico, e quindi non personale, ma collettivo, e chiami necessariamente in causa l’interezza di un gruppo dirigente, interno ed esterno al PD.
Oggi guardiamo Penati e siamo costretti a chiederci quanto abbiamo potuto renderci simili a ciò che avremmo dovuto e voluto combattere. Ci sentiamo stonati, esattamente come quando ascoltammo di essere in procinto di avere una banca, come quando ci indussero a sospettare Marchionne di santità e a vedere nella lega una nostra costola un po’ bieca. Come quando Craxi aveva ragione e, sottovoce, Berlinguer torto.
Ora io di sentirmi stonato ne ho abbastanza, ne ho abbastanza di perdere e di dovermi confondere.
Ho visto il mio paese trascinato a fondo dalle ricette dei vincenti e la sinistra smarrirsi nelle strategie dei cresciuti e allevati nel trauma della sconfitta.
Per questo e non per un ridicolo giovanilismo di maniera credo si imponga un urgente bisogno di ricambio dei gruppi dirigenti, che diventa tutt’uno con la necessità di un’alternativa politica reale.
I due temi si tengono e tanto più lo fanno ora che il precipitare della crisi, la sua traduzione rapidissima dal terreno dell’economia a quello della politica, impone il coraggio e l’immaginazione di una cesura con i dogmi e i valori del passato recente.
A partire dalla cinica rassegnazione all’impotenza della politica, alla sua riduzione a timida amministrazione dell’esistente.
Qualcuno si è fatto forte della resa, ne ha goduto, ha voluto persino impartirla come lezione. Altri l’hanno voluta apprendere con avidità, come fosse il segno del tempo. Ora quel tempo è finito. Ora tocca a noi.

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