martedì 16 agosto 2011

2 finanziarie per uscire dalla crisi (con i piedi in avanti?)

Agli albori della crisi serpeggió quasi una qualche soddisfazione a sinistra.
Derivava dalla sensazione della ragione postuma, dalla conferma dei propri dubbi, ma soprattutto dall'idea che il crollo delle borse mondiali seguito allo scoppio della bolla immobiliare avrebbe spazzato via 30 anni di neo liberismo.
Era d'altronde tutto un inaspettato florilegio di analisi e dichiarazioni sulla fine dell'economia di carta, sul nuovo primato della produzione e dei suoi attori sociali, sulla necessità di nuovi equilibri interni e internazionali fondati sul politico a scapito dell'economico.
Tre anni dopo siamo frastornati da una doppia manovra finanziaria che avrà l'unico effetto di deprimere ciò che resta del nostro mercato interno e della crescita del paese, determinata nella sua presunta urgenza e necessità dalla turbolenze di mercati finanziari drogati di liquidità e caratterizzata a latere da interventi ideologici e punitivi nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori.
Stiamo parlando di una manovra figlia, nella sua mole di immensa rozzezza, della pochezza del governo italiano e dei furori monetaristi dei vertici comunitari, a partire da quelli della BCE, già responsabile dell'assurdo, recente innalzamento dei tassi di interesse.
Ora, a me pare chiaro che l'attuale panorama economico, non troppo dissimile da quello degli ultimi lustri, al netto delle bolle speculative, sia caratterizzato da una classica trappola della liquidità.
Inefficacia degli interventi sui tassi, se non per le casse degli Stati, depressione dei mercati interni, causata dall'incedere fragoroso della disoccupazione, relativa scarsità globale di mercati esteri, un'enorme massa di capitali immobilizzati in posizione di rendita o di attesa.
Se accettiamo questi presupposti, la soluzione non puó essere altro che politica, ovvero determinata da un doppio intervento sul lato fiscale e su quello della spesa pubblica, finalizzati entrambi a determinare la crescita dell'economia.
Si tratterebbe, in altre parole, di imporre una forte tassazione sulla ricchezza improduttiva, per liberare risorse a favore del ceto medio e medio-basso e soprattutto dell'occupazione, che dovrebbe tuttavia essere direttamente garantita dall'intervento in opere di interesse pubblico.
Stante la situazione italiana, una parte delle risorse aggiuntive andrebbe impegnata nel contenimento del debito pubblico.
Se esistono ragioni serie per opporsi a una simile impostazione, diverse dalla difesa di interessi di ceto e di classe, sarei felice di ascoltarle.
Siamo invece ottusi dal mantra anti-europeista delle istituzioni comunitarie, naturalmente accettato senza discutere in Italia, per cui il centro di ogni nostro problema è da vedersi nel debito pubblico.
Questo da un lato è certamente indice come si diceva dell'incapacità di superare la barriera ideologica che é all'origine della crisi.
Dall'altro tuttavia credo rifletta la totale perdita di ruolo globale dell'Italia, la sua irrilevanza di paese ormai ridotto nei quartieri della prima periferia del sistema mondo. Io non credo sia ignoto nelle capitali europee che la medicina imposta ci porterà alla depressione economica.
Credo che questo sia indifferente, perchè l'unico interesse collegato all'Italia è impedire che i suoi disequilibri di bilancio possano nuocere all'intera area dell'Euro.
Ci si rapporta all'Italia non come ad un possibile protagonista della ripresa e della sua gestione politica, ma come ad un malato infetto da emarginare definitivamente per evitare contagi.
Che il nostro attuale governo, e sotto alcuni aspetti l'intera classe dirigente del paese, accettino senza fiatare una simile impostazione, dirottando l'indignazione popolare sui cosiddetti costi della politica, rappresenta il massimo della loro squalifica.
E forse dovremmo cominciare a chiedere il voto anticipato non solo per liberarci da Berlusconi, ma anche da una logica politica che gode nell'invocare sacrifici, che non vede il futuro, che mentre vede massacrare i ceti popolari, la classe media o ciò che ne rimane, gli enti locali e i simboli della democrazia, non trova di meglio che dichiararsi soddisfatta per l'abolizione di 30 province o invocare il dimezzamento della rappresentanza parlamentare.
In questi giorni abbiamo cominciato a raccogliere le firme per restituire alle cittadine e ai cittadini italiani la possibilità di un rapporto reale coi propri rappresentanti.
Il 17 settembre saremo in piazza con gli amministratori dei nostri enti locali, ridotti ormai a esecutori fallimentari.
Il 1 ottobre ancora in piazza, in una giornata di lotta democratica e di costruzione dell'alternativa, in attesa dello sciopero generale, mai così utile e necessario.
Possono essere piccoli passi, ma da fare a ritmo di corsa, investendoli di ogni energia necessaria.
In gioco non c'è infatti il governo di domani, ma la possibilità stessa che questo abbia ancora una democrazia su cui poggiare.

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