lunedì 29 agosto 2011

Tempi lunghi e risposte urgenti

È molto difficile comprendere quanto nel tempo odierno serva alla politica lo sguardo lungo, l'analisi complessa, la costruzione di ipotesi che vogliano insieme porre su basi stabili la comprensione dello stato presente e tracciare strategie di durata per la sua trasformazione.
Lo dico non per amore dell'attimo fuggente, ma per il suo essere substrato dell'attuale dimensione culturale di massa, e quindi oggettivamente teso a divenire condizione fondamentale di formulazione di un discorso comprensibile e quindi politicamente efficace. L'urgenza diventa la risposta immediata all'emergenza del momento, in un quadro complessivo che non si vuole né si può mettere a fuoco né tantomeno padroneggiare. Ogni fenomeno è letto nella fase in cui è in essere nella propria singolarità, salvo improbabili e soprattutto inutili tentativi di ricomposizione a posteriori, tali per cui tutto era ovvio, lineare e prevedibile.
L'arte dei commentatori calcistici elevata a scienza politica, sociale ed economica.
Ora si sta affermando come senso comune l'idea che la crisi in atto sia nata come crisi finanziaria, per divenire poi crisi economica, ed essere oggi crisi dei bilanci degli Stati.
Qui ci fermiamo, perché i pochi temerari che si orientino nel terreno delle previsioni e della memoria storica cominciano a sussurrare il tema della crisi militare.
Io credo che tale impostazione sia completamente sbagliata e che entrare oggi nel dibattito assumendola come corretta, anche solo sul piano della scansione temporale, possa essere solo foriero di correità in drammi futuri.
La crisi è ed è stata una crisi economica strutturale di lunga durata, la cui soluzione può essere trovata solo riconoscendola ed affrontandola come tale.
Essa trova le sue radici nell'esaurimento della spinta propulsiva del modello keynesiano in occidente, avvenuta sul finire degli anni '70, e i suoi antidoti temporanei nell'esplosione della massa debitoria pubblica e privata, nella privatizzazione dei monopoli naturali, nella creazione di un unico mercato globale asimmetrico del lavoro e dei capitali, nello sviluppo di bolle speculative, nella rivoluzione informatica.
In altre parole, in ciò che abbiamo chiamato neo-liberismo, che altro non è stato che la forma naturale propria del capitalismo nel trentennio trascorso.
Il problema era ed è la possibilità per il sistema di garantire tassi adeguati e crescenti di remunerazione del capitale, ovvero la condizione sottostante la capacità del mercato di mantenersi in un equilibrio sostenibile.
Condizione impossibile secondo Marx, che infatti vedeva proprio nella caduta tendenziale del tasso di profitto e nella contraddizione insanabile fra forze e organizzazione della produzione gli elementi che avrebbero condotto inevitabilmente al superamento del capitalismo.
Condizione difficile secondo Keynes, che tuttavia individuava nella correzione politica dei limiti intrinsechi nel modello economico la possibilità di un suo mantenimento o evoluzione.
Condizione certa, secondo ogni liberista, a patto che ogni aspetto dell'esistente possa essere valorizzabile senza vincoli esterni al mercato.
Così hanno fatto, dimenticando solo la libera circolazione del fattore umano, inchiodato nuovamente alla terra come ai tempi del servaggio.
Chi aveva ragione? Tutti a ben vedere, ciascuno secondo la propria prospettiva.
Ma si sono imposti i conservatori e per sopravvivere hanno fatto la rivoluzione.
Hanno dato al mondo una sola regola e moneta, dopo aver estinto il fantasma del comunismo, hanno fatto del capitale puro, assoluto spirito, nella competizione hanno messo a valore ogni singola vita, anche quelle perdute, hanno sottratto il respiro al futuro per dare fiato al presente.
Lo hanno fatto senza opposizione, se non quella di sua maestà, esibendo sempre il feretro di Lenin a prova dell'unicità indiscussa del pensiero.
Così ci hanno trascinati per trent'anni ed ora che apparentemente la cena è finita ci chiedono di pagare il conto.
Così, dopo che il debito è stato tradotto in profitto e quello privato debitamente convertito in pubblico, si afferma che l'unico punto in agenda per la politica debba essere proprio la riduzione di quel debito.
Poi, sia detto per inciso, arriverà il momento in cui la liquidità iniettata a profusione dovrà essere asciugata dall'inflazione.

Ma restiamo all'oggi. Che relativamente agli Stati esista un tema di sostenibilità del debito è un assioma inverificabile.
Per un privato un debito diventa infatti insostenibile quando le entrate non siano più sufficienti a finanziare il servizio del debito e la propria sopravvivenza, in assenza di soggetti disposti a concedere ulteriore credito.
Per uno Stato vale lo stesso principio, con la differenza sostanziale che questo ha attraverso l'imposizione fiscale maggior controllo sul livello delle proprie entrate e per il tramite della propria forza istituzionale minori difficoltà a reperire sempre nuovi, ulteriori finanziamenti.
Chi osservi per esempio l'Africa si renderà immediatamente conto che il debito degli stati continentali altro non sia da tempo che una mera misura contabile del loro stato di soggiacenza politica.
Per uno stato il tema della sostenibilità del debito non ha dunque a che fare con la sua sostenibilità in sé, ma con la qualità della spesa e con la struttura del regime fiscale, ovvero con la capacità di tradurre le risorse acquisite in fattore propulsivo e non recessivo dell'economia e di immettere elementi di coesione e non di rancore sociale.
Sotto questo profilo dovrebbe essere fuori discussione che, indipendentemente dalla sua entità, il debito pubblico italiano sia insostenibile e che la manovra in discussione non faccia altro che acuirne ulteriormente tale carattere, anche se dovesse riuscire nell'intento di ridurre lo stock e quindi i costi del servizio.
Lo stesso dicasi tuttavia per la maggior parte delle proposte dell'opposizione parlamentare, incapaci di negare alla radice che il problema italiano sia connesso ai saldi del bilancio pubblico, e quindi coinvolti nel gioco micidiale dei tagli di spesa.
Anche l'opposizione sociale ed extra istituzionale dovrebbe tuttavia essere molto attenta nel porre l'accento esclusivamente sull'argomento della macelleria sociale, acuendo l'immagine distorta che vuole la sinistra attenta esclusivamente alla spesa assistenziale, indipendentemente dalle necessita della politica economica.
Proviamo a mettere in fila i problemi del nostro paese.
Una disoccupazione eccessiva, che diventa insostenibile quando la si guardi dal punto di vista delle giovani generazioni.
Una rete di servizi pubblici non omogenea sul territorio nazionale, spesso al di sotto degli standard minimi di qualità e in costante via di ridimensionamento.
Un welfare carente, sbilanciato sul lato previdenziale e quindi, alla luce delle riforme di settore, destinato al progressivo smantellamento.
Un sistema di formazione lontano tanto dalle esigenze lavorative del presente, quanto da ogni ipotesi programmatoria del futuro.
Una struttura produttiva debole, carente sul piano della ricerca, molto condizionata dalle congiunture economiche internazionali, sostanzialmente periferica sul lato dell'innovazione di prodotto e processo.
Un mercato interno sempre più asfittico, a causa del deterioramento del potere d'acquisto di un ceto medio in estinzione e dell'eccessivo peso nelle bilance famigliari di spese per l'accesso a beni non dinamici, come la casa.
Un afflusso sconsiderato dei capitali verso la rendita anziché gli investimenti produttivi.
Un fisco oppressivo per il lavoro dipendente e, entro certi limiti, per l'impresa a fronte di un'evasione endemica e socialmente determinata.
Una rete infrastrutturale carente, vetusta, spesso estranea ad ogni logica sistemica.
In sintesi, un bilancio pubblico inefficiente sul lato delle entrate e inefficace su quello delle uscite, incapace sia di assistere lo sviluppo delle forze sociali ed economiche, sia di garantire il necessario riequilibrio della diseguaglianza.
Se questi sono i presupposti, e apparentemente non solo lo sono, ma appaiono persino condivisi, come può diventare centrale nel dibattito politico la contrazione della spesa pubblica, anziché la sua riqualificazione e persino espansione? Chi può seriamente pensare che il vincolo del pareggio di bilancio, l'aumento tout court della pressione fiscale sui soliti noti, l'allungamento del tempo di lavoro, il taglio dei costi della pubblica amministrazione, ovvero la riduzione di organici e retribuzioni, l'ulteriore compressione della capacità di spese di regioni e enti locali, possano seriamente contribuire a risolvere uno soltanto dei problemi accennati?
Nessuno, e infatti serviranno solo a farci rimanere non graditi ospiti in un'Europa che le destre continentali non riescono a immaginare se non come mercato comune a guida franco tedesca, esattamente secondo il modello ALCA pensato dagli USA per l'America Latina, il cui superamento è stato invece la condizione dello sviluppo di quell'area del mondo.
Cosa dovrebbe fare la sinistra?
Invertire il paradigma, partendo dall'obiettivo che le è proprio e da sempre la caratterizza, ovvero la piena occupazione come leva centrale dello sviluppo economico. Aggiungendo che tale concetto nel XXI secolo può essere declinato come pieno accesso ai beni e servizi minimi di cittadinanza, in un quadro di alternanza dinamica fra tempi di lavoro, non lavoro, cura e formazione.
Il secondo punto dovrebbe essere una nuova definizione di quelli che furono i monopoli naturali, da sottrarre al mercato perché forieri esclusivamente di rendite di posizione e quindi distorsivi sul piano strettamente liberale della migliore allocazione delle risorse. Sto parlando dei beni comuni nella loro accezione più ampia, al di fuori di una logica semplicistica di beni ancestrali necessari alla vita.
Il terzo punto non può che essere la riqualificazione della macchina dello stato, con la progressiva riduzione di una burocrazia spesso ancora novecentesca, lo snellimento delle procedure e dei regolamenti amministrativi e l'ampliamento della base dei servizi offerti, in considerazione delle nuove esigenze poste da una società profondamente mutata nella propria struttura demografica. Questo non ha nulla a che fare con i costi della politica, che appaiono il più fuorviante e pretestuoso degli argomenti in campo in questo momento.
Il quarto punto dovrebbe essere un grande piano organico di spesa pubblica in investimenti, che faccia piazza pulita del pulviscolo attuale, per ragionare seriamente del futuro di un paese ormai privo di strade, scuole, ospedali, reti, ferrovie, impianti all'altezza del presente.
Infine la riforma fiscale, che si dovrebbe caratterizzare per l'aggressione ai patrimoni e per la liberazione dei redditi. Si tratta in questo caso di un indirizzo teso a liberare risorse altrimenti immobilizzate, favorendo consumi e investimenti diretti anziché mediati dalla rendita, nonché di una misura necessaria di equità immediata in un paese in cui, sul piano della posizione sociale, il reddito, dichiarato e no, incide sempre meno, sostituito dalla ricchezza storica.
Io ho in mente questo quando sento parlare di rivoluzione riformista, forse per mancanza di immaginazione.
Non riesco a pensare un futuro illuminato dalle soluzioni del mercato, né mi sento tranquillizzato dal richiamo costante alla semplice lotta all'evasione fiscale e a un recupero di moralità.
Vedo il complessivo crollo di credibilità e visione della classe politica italiana ed europea, ma non posso credere alla fine del ruolo della democrazia e delle sue istituzioni come condizione del benessere prossimo venturo.
La globalizzazione, è vero, ha spezzato le colonne d'Ercole dei confini nazionali, rompendo il giogo che legava indissolubilmente capitale, lavoro e territorio, ponendo sopra essi insieme l'imperio dello Stato.
Così operando ha fatto del capitale, unico elemento globale per sua natura e vocazione, il nuovo principio ordinatore del sistema.
Così la politica nazionale è apparsa gioco e sfoggio di potere, come gioco di potere erano le faide e le cacce degli aristocratici nel maturare dello stato nazionale.
La globalizzazione tuttavia, liberata della mistica che l'ha accompagnata, è una fase, e non una strutturazione permanente dell'economia mondiale, che oscilla e ha oscillato continuamente fra fasi di liberalizzazione degli scambi e protezionismo.
Per questo la democrazia ha il dovere di riassumere rapidamente il proprio ruolo ibrido di comando e servizio, per non essere travolta con la globalizzazione che l'ha addormentata, quando i capitali torneranno a farsi territoriali.
Forse non può essere un singolo Stato ad invertire la rotta, ma certo può esserlo lo spazio euro-mediterraneo.
E comunque da qualche luogo bisognerà pur cominciare un'impresa di riappropriazione, fuori di cui sembra esserci solo la china di un incerto ritorno al peggiore passato.
Può essere l'Italia a contagiare l'Europa, perché ha ancora la statura per farlo e nulla da perdere se fallirà.
Quale paese infatti in occidente è ricco e sottrae il futuro a più generazioni? Quale forma nelle sue università cervelli che faranno la fortuna dei centri di ricerca di tutto il resto del mondo? Quale pur vivendo al centro di opportunità e contraddizioni ha scelto per se stesso la condizione di periferia? Quale ha tanta sete di politica e democrazia da aver resistito a vent'anni di deserto berlusconiano?
Un tentativo, fosse anche uno soltanto, io credo ancora possiamo meritarcelo.

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