giovedì 21 luglio 2011

Genova per me

Forse è curioso, ma non ripenso spesso alle giornate di Genova 2001, e non certo per non averle vissute.
Ricordo i mesi che le precedettero, trascorsi in riunioni continue, letture iniziative.
Ricordo il 20 luglio, la morte di Carlo, il telefono impazzito, il pullman cambiato 100 volte nella notte, fra chi abbandonava e chi decideva di esserci, scossi entrambi dalla violenza dello Stato.
Ricordo il 21 luglio, il fumo urticante dei lacrimogeni, la fuga dalle cariche, i compagni dispersi, l'attesa angosciata dell'ultimo superstite al punto di raccolta, e poi il sollievo di esserci tutti, più o meno contusi.
E poi lo shock, quello vero, la telefonata di Fabrizio rimasto a Genova, che ci dava notizia dell'irruzione alla Diaz. Non era finita, non erano bastate le cariche, gli spari, la caccia all'uomo.
Ci voleva la rappresaglia, e ancora non sapevamo dei sequestri e della tortura fisica e psicologica.
I poliziotti non saranno mai nostri nemici scrivemmo il giorno dopo, mentre convocavamo in piazza a Ravenna chi c'era e chi non c'era per ritrovarci, denunciare, ricordare che non avremmo mai accettato il gioco cinico di un potere alla ricerca di un'opposizione a sua immagine e somiglianza.
In quell'affermazione stava tutto il nostro coraggio, se é vero che ancora molte e molti di noi provano moti istintivi di paura davanti a una divisa.
Poi venne Firenze, il movimento libero dall'assedio del G8, l'orgoglio di poterci mostrare per ciò che eravamo, ma nel frattempo molte cose erano già cambiate.
Il mondo era stretto nella spirale guerra-terrorismo, l'Afghanistan entrato nella quotidianità preparava l'Iraq, l'Italia già immersa nel suo decennio perduto.
Non lo sapevamo, ma presto il precariato avrebbe cessato di essere una vaga minaccia per diventare condanna di massa per una generazione, mentre già cominciava a mancare una settimana al calendario di troppe famiglie italiane.
O forse sapevamo già tutto, senza riuscire ad afferrarlo fino in fondo, a trasformarlo in politica, illusi, un po', che la politica vera fosse la nostra, quella che rifiuta il potere fino ad ignorarlo, nonostante ci avesse dato segni inequivoci della sua presenza.
Quando tornai da Genova a chi mi chiese cosa pensassi di quelle giornate risposi che la Storia, già dichiarata finita, era ricominciata.
Ne sono ancora convinto, così come lo sono della nostra ragione di allora, della nostra capacità di prevedere l'ovvio, ovvero l'insostenibilità assoluta del neoliberismo.
Purtroppo è sempre vero ciò che si dice del tempo e della politica e agli albori del millennio la nostra visione non riuscì a diventare egemonia.
Oggi siamo immersi nella crisi gravati dal peso del decennio perduto. Ma forse, finalmente, il nostro tempo è adesso.

Nessun commento:

Posta un commento