sabato 28 luglio 2012

Di Pietro con Grillo? Good night and good luck.


Di Pietro adora i titoli sui giornali, che graziosamente ricambiano.
Li conquista a suon di provocazioni, dichiarazioni sopra le righe, fendenti tirati con violenza a destra e a manca, attacchi alle istituzioni, ai nemici del momento e agli alleati.
Se si dovesse prendere sul serio, lo si lascerebbe molto lontano da se, soprattutto quando precipita nel fideismo giustizialista, ma da tempo se ne conosce la passione per i rapidi giri di valzer, e allora ci si limita ad aspettare il prossimo volteggio.
La sparata della settimana merita tuttavia di non essere gettata nel cesto del transitorio,  dove comunque finirà, perchè ci mette davanti ad un problema serio di cultura e prospettiva politica.
Mi riferisco alla proposta dei non allineati, all’idea di costruire uno schieramento di chi si oppone a Monti senza collocarsi esplicitamente a destra, ovvero M5S-IDV-SEL.
Per quanto mi riguarda, il solo fatto che questa ipotesi possa essere pensata e raccolta da alcuni come diversa da un non sense logico rappresenta un problema.
E non mi riferisco soltanto all’elenco subito stilato delle mille sparate di Beppe Grillo che farebbero della sua forza politica un movimento omofobo, razzista, fascista in senso lato, dato che non lo considero tale, e tale in effetti non è.
Penso invece alla facilità spregiudicata con cui si costruiscono e smontano ipotetiche coalizioni a uso e consumo di telecamere e taccuini, contribuendo intanto a rafforzare la tesi che il rapporto con il PD possa solo e comunque essere vissuto come male necessario, da cui liberarsi non appena si affacci l’ombra di una possibile, consistente alternativa.
Proviamo quindi a essere chiari.
Il PD lo conosciamo tutti, fin negli anfratti, fin nelle contraddizioni aperte dalla più infima delle sue sub-correnti.
Sappiamo che ha un vice-segretario liberista, una presidente beghina, un senza-carica di cui si è già detto ogni male, un segretario vorrei-ma-non-posso.
Sappiamo che è arrogante anche senza averne i mezzi, inchiodato da gruppi dirigenti avvizziti dagli anni, privo di un’identità non compromissoria, talvolta inaffidabile per eccessivo cinismo.
Ha appoggiato e appoggia Monti, e questa è un’aggravante che porta all’ergastolo, e ha dato fin troppo l’impressione di farlo con passione.
Non è la sinistra europea, e in questo è in buona compagnia, dato che quella italiana è fatta di senza famiglia, nè si propone di esserlo, anche se probabilmente ha smesso di credersi migliore, “più avanti”.
Ma resta l’unico alleato possibile per chi, qui ed ora, si ponga l’obiettivo del cambiamento del paese, in un quadro come quello dato, con una legge elettorale che favorisca o imponga la costruzione di coalizioni.
Anche perchè è il solo soggetto politico a cui si possa lanciare la sfida di un progetto che proponga al paese la via d’uscita francese dalla crisi, ponendosi in esplicito rapporto con l’esperienza di Hollande, non come forma di subalternità culturale, ma di riconoscimento dell’esigenza di rendere omogeneo il programma della sinistra continentale.
Il PD preferirà altre formule, più nazionali, ovvero segnate dal compromesso coi poteri immobili, con ideologie morte, con la forza dell’inerzia e della continuità?
Allora, in extremis, forse fuori tempo massimo, si potrà pensare a fare da soli, ad un soggetto autonomo del socialismo europeo, che si proponga esattamente gli stessi obiettivi che avremo lanciato al PD.
Ma questa soluzione, è bene dirlo, per essere credibile non avrebbe alcun rapporto, non solo con Grillo, ma nemmeno con Di Pietro, che in Europa sta coi liberali, ma sarebbe considerato un populista di destra in qualsiasi paese dagli Urali all’Atlantico.

giovedì 19 luglio 2012

La democrazia del PD


Quello andato in scena all’ultima assemblea nazionale del PD non è stato un bello spettacolo, nè per il partito che se ne è reso protagonista, nè per l’intero centrosinistra, qualsiasi cosa questo oggi significhi.
C’è una questione di merito, ovvero la possibilità che una vittoria delle forze progressiste porti finalmente i diritti delle persone, e quindi la possibilità di veder riconosciuto fino in fondo il principio di uguaglianza, indipendentemente dall’orientamento sessuale e dalle preferenze religiose, al livello ordinario dei paesi occidentali.
E c’è una questione di metodo e di concezione della politica e della democrazia, dato che si è sancito per l’ennesima volta come nel PD sia letteralmente impossibile votare su documenti e proposte prive dell’imprimatur unanime di organismi dirigenti ristretti.
Davanti a questo fatto nulla conta quanto sia avanzata e coraggiosa la proposta della segreteria o dei suoi derivati, poco o niente in questo caso, perchè si afferma d’autorità l’impossibilità di giudicarla o di verificarne il livello effettivo di consenso.
Si dirà che il funzionamento di un partito riguarda i suoi iscritti, e che comunque il dibattito nel PD è libero e aperto come in nessun’altra organizzazione politica italiana.
Non credo siano vere l’una e l’altra affermazioni.
Nel momento infatti in cui si ipotizza un’alleanza di centrosinistra, di cui il PD sarebbe evidentemente il perno, le sue modalità di costruzione della decisione politica diventano anche un mio problema, perchè è con quelle modalità che domani dovrò interloquire.
Quanto alla libertà del dibattito, questa non è mai tale fino in fondo, e forse nemmeno dal principio, se vincolata dall’esito obbligato del consensus delle oligarchie.
Nel PD forse si discute moltissimo, nel senso che ognuno fra gli aventi parola è libero di spargerla a piene mani e pubblicamente, ma si decide poi insieme in un lavoro attentissimo di calibratura meticolosa delle differenze, necessariamente blindato e intoccabile.
Questo sistema produce sistematicamente difficoltà enormi nei rapporti con ogni ipotetico alleato, poichè ogni accordo preso a livello di coalizione rischia di rimettere in discussione l’accordo preventivo fra i dominus democratici.
Accordo scaccia accordo, con il caos come risultato.
Di qui la passione per un’alleanza “equilibrata”, dove al PD si associno altre forze reciprocamente antagoniste e di pari forza, che garantiscano, elidendosi a vicenda, l’identità perfetta fra equilibri interni e di coalizione.
SEL e UDC, per fare un esempio non a caso.
Bene, io chiamo questa cosa antipolitica.
Non perchè ritenga necessariamente impossibile costruire un progetto per il paese che comprenda anche molte contraddizioni, ma perchè credo che queste vadano sciolte, non assunte come strumento al servizio di una perenne mediazione fra oligarchie.
Perchè sono convinto che l’Italia, questa Italia, abbia bisogno di essere interpretata e rappresentata, non messa sotto tutela da un ceto separato.
Perchè, infine, il peggior danno che i partiti possono fare in questo momento alla democrazia è negare la democrazia al proprio interno, alludendo all’idea che il voto sia l’anticamera del male, la rottura dell’armonia naturale, quasi un’irruzione aliena.
Infatti, così addestrati, vanno avanti a votare a colpi di fiducia provvedimenti a cui poi, la notte, si sognano contrari.

venerdì 13 luglio 2012

A che punto siamo


Berlusconi torna in campo, e questa non è una notizia, dato il suo carattere di leader reale e indiscusso del centrodestra, nonchè i rovesci che hanno accompagnato nei mesi di ventilato ritiro le sue creature economiche e politiche.
Mediaset crolla in borsa e negli affetti degli inserzionisti, il PDL si riduce a striminzita arena di contesa per correnti prive di nobiltà e prospettiva.
Sarà da vedere quanto il Cavaliere sia rimasto nel cuore della maggioranza degli italiani, ma di certo non farà peggio di successori designati e aspiranti.
La Lega esce dalla stagione del parricidio e delle purghe stanca e avvelenata, priva di un orizzonte diverso da quello attualmente incarnato dai Tosi e dagli Zaia, di banale, discreta amministrazione in salsa verde.
Un po’ poco per aspirare a riconquistare rapidamente un ruolo nazionale, soprattutto se sarà confermato un sistema elettorale che la ridurrà nuovamente ad ancella del berlusconismo.
L’UDC si guarda intorno smarrita, incredula di aver riacquisito centralità politica un minuto dopo essere stata demolita dall’elettorato, senza aver prodotto nulla di diverso da una profferta di alleanza al PD.
Miracoli dell’incontro fra scuola democristiana e doposcuola comunista.
Il PD fa il PD. Robusto, affidabile, incolore. 
Ha voti consolidati e moderata capacità di espansione, gruppi dirigenti intemedi rodati, capacità di reggere l’inconcludente rumore del proprio dibattito interno, abitudine al potere e alla sua assenza, e soprattutto uno stomaco di ferro. 
Ha un solo problema. 
Non avendo alcuna identità politica, assumerà giocoforza quella di chi gli sarà vicino. 
Il PD, dal punto di vista dei voti e dell’organizzazione, è la coalizione, ma dal punto di vista del profilo la coalizione è i suoi alleati. 
Quindi, quando c’è di mezzo il PD, tralasciare il tema delle alleanze è un non-sense, perchè solo queste danno significato a quella che altrimenti è una potente cacofonia.
L’IDV è un magma incomprensibile contenuto dalla capacità di Di Pietro di ricavare consistenti rendite elettorali posizionandosi e ricollocandosi nei segmenti vuoti dello spazio politico. 
L’impressione è che oggi il gioco sia molto più in crisi di quanto possa apparire, per la ripresa della sinistra, che non può tuttavia contare su simili risorse e visibilità, e il boom del M5S.
SEL rimane lo snodo essenziale della politica italiana, perlomeno sul versante del centrosinistra. 
Non è chiaro di quanti consensi possa disporre, è debolissima sul piano delle risorse materiali, dell’organizzazione e delle relazioni, così come ha alcune evidenti difficoltà di collocazione strategica. 
Ma ha un leader riconosciuto e un’identità immediata, e questo significa chiarezza. 
E’ il contrario del PD, a cui sta come un accento ad una lunga parola afona, carica di significati repressi.
Soprattutto, dalle sue scelte prossime potrà dipendere il futuro della sinistra e probabilmente il profilo del governo del paese, a patto che si liberi dal condizionamento paralizzante del terrore di sbagliare.
La FDS forse resiste, come ogni altro presidio di nostalgie e memorie.
Il M5S è, pare, al 20%, maturato nell’idea che la politica nulla possa, se non far danni. Fino a questo momento, sul piano locale, ha sempre dimostrato di sapere consolidare e incrementare i consensi attribuitigli dai sondaggi. Se così fosse, si dimostrerebbe che in Italia la propensione al voto è tanto forte da portare alle urne anche chi si asterrebbe in qualsiasi altro paese democratico. Questo è un bene, ma niente di più. Molti voti per nulla.
Questo è il quadro per cenni ed impressioni. 
Brutto e scomposto, fatto di debolezze, furbizie e disperazioni.
Chi vincerà? Qualcuno di questi, ma nessuno come loro. 
Vincerà chi per primo troverà un’anima, perchè potrà promettere di restituirla ad un paese che smarrito la sta cercando.

sabato 7 luglio 2012

Monti non è la Thatcher. La fa, e in mezzo c'è il mare.


La Grecia è stata governata dalla troika straniera. 
L’Italia non ha subito la stessa umiliazione. 
I commissari sono stati scelti in loco, e imposti a un Parlamento che ha consegnato loro la propria dignità, in cambio del diritto ad un’indecorosa sopravvivenza.
La prima finanziaria di Monti, con l’attacco al sistema pensionistico, la riforma del mercato del lavoro, e oggi la seconda finanziaria, che nell’ennesima neo-lingua italiana diventa Spending Review, il cui asse è il taglio di sanità, sistema giudiziario e personale della PA, rappresentano un potente attacco ad ogni possibilità di cambiamento reale del paese, che viene invece lacerato come una coperta vecchia buona solo per il rattoppo.
Monti non sta salvando l’Italia, come ripete senza sosta un’informazione mai così di regime. Ciò che sta facendo è costringerla a forza nei teoremi e postulati di un’ideologia sconfitta dalla storia, ma ancora viva nelle menti delle burocrazie finanziarie italiane e internazionali.
Pensare di salvare l’Italia con gli optimates, con la sospensione de facto della democrazia, secondo la teoria che la partecipazione popolare non sia altro che un vulnus alla razionalità perfetta delle scelte, è pura e semplice follia.
Ciò che oggi stiamo vivendo non è una stagione di riforme, anche dolorose, ma una riscrittura formale di norme e tabelle contabili, senza alcuna considerazione dell’impatto reale che questa avrà sulla società italiana.
Monti non è la Tatcher, che ha stravolto la Gran Bretagna a partire da un progetto politico e da un conflitto durissimo che su questo si è innervato, e che ha generato gli attori del cambiamento, per quanto perverso.
Monti fa la Tatcher, per averne letto sui libri, e appoggiandosi alla parte peggiore della società italiana, quella per cui l’unica cosa che deve restare intatta è la rete del capitalismo relazionale e delle rendite che ne derivano.
Quella per cui andava bene l’esplosione del debito pubblico, perchè garantiva uno stato sociale a costo zero per le loro tasche, e oggi va altrettanto bene il suo taglio verticale, perchè hanno tasche abbastanza capienti per fare da sè.
Quella per cui andava bene l’IRI, quando si trattava di investire, e ancor meglio il suo smantellamento, per acquistare a prezzi di saldo nei settori garantiti, per poi incassare generose plusvalenze nella deindustrializzazione del paese, da investire in nuove, vecchie rendite.
Quella che dovrebbe essere il nemico giurato di ogni liberista, e che invece incassa applausi quando attacca e mette alla berlina i suoi politici maggiordomi, i sindacati, i lavoratori e i loro diritti, i dipendenti pubblici, la stampa non asservita, ma beneficiata da briciole di finanziamento pubblico.
O si fa scudo dell’artigiano evasore, per dire che lì c’è l’evasione, o del tassista burino, perchè lì c’è la rendita.
E che ha preferito Berlusconi, perchè in definitiva si faceva i fatti suoi, e coccolato la Lega, come oggi coccola Grillo, perchè non c’è nulla di meglio che un rivoluzionario che sbaglia bersaglio, e vezzeggiato la Sinistra di Governo, sempre pronta a qualsiasi genuflessione in  cambio di una pacca sulla spalla e di una gita nell’Italia che conta.
Oggi stanno tutti con Monti, perchè il conto della loro rapina lo fa pagare ad altri, e perchè garantisce che il prezzo politico di chi teorizza che il consenso sia un orpello fastidioso e non il cuore della democrazia si scaricherà per intero sulla sinistra, e quindi su qualsiasi ipotesi di cambiamento reale.
Bersani guarda i sondaggi e si vede al governo, con qualsiasi schema e alchimia.
Difende anche lui una rendita, il suo 20-25%.
Crede di poter scegliere alleati e interlocutori, di avere su di sè la responsabilità di salvare le istituzioni dal populismo, accarezza l’idea di una campagna elettorale in cui si scontrino europeisti e anti-europeisti, per poter ancora una volta parlare d’altro.
Vede lo smarrimento del paese davanti ad una politica governativa condotta col piglio dell’ecatombe sacerdotale, ma evidentemente è abituato a temere i sacerdoti.
Intanto vota e borbotta, borbotta e vota, ogni tanto impreca, ma senza darlo troppo a vedere.
Lasci perdere, e guardi immediatamente alla sua sinistra, perchè questo paese ha un disperato bisogno di cambiamento, ma ogni giorno, al ritmo dei sacrifici, il vecchio sta seppellendo il nuovo.
E col vecchio non si cambia proprio nulla.