venerdì 30 marzo 2012

Monti e l'amico, americano, immaginario


La semplice esistenza di media che riducano l’informazione a propaganda dovrebbe essere considerata un elemento estraneo ad una normale democrazia.
Peggiore è l’unanimismo del sistema dell’informazione, la tendenza più o meno spontanea di tutti i canali main stream ad allinearsi su posizioni univoche, a diffondere nello stesso modo la stessa notizia, se non la medesima interpretazione.
Quando si ha unanime propaganda il problema è serio e significa che si prossimi e pronti a entrare in un territorio dai contorni sfocati, dove il termine democrazia assume connotati tanto indefiniti da tracimare in altro.
E’ per questo che mi ha molto colpito ascoltare che la notizia data a reti e colonne unificate del tributo pubblicamente tributato da Obama a Monti e solo a Monti davanti alla platea dei capi di stato fosse semplicemente e banalmente un falso, peraltro facile da verificare.
E altrettanto mi colpisce che nessun giornale italiano di quelli che a questa bufala hanno dedicato titoli, corsici e retroscena abbia scelto di aprire con una rettifica e un commento sullo stato dell’informazione nel nostro paese, ridotta in tre mesi a macchina del consenso per un governo privo di legittimazione popolare e tentato ogni giorno di più dalla riduzione del Parlamento a ruolo di ostaggio.
Nessuno peraltro che si fosse nemmeno stupito del fatto che l’amministrazione USA, notoriamente critica con l’impostazione rigorista della destra europea e più propensa invece a politiche espansive, scegliesse di mettere al centro dello scenario la stampella italiana della signora Merkel.
Tutti invece rigorosamente embedded, pronti a trascrivere la nota di una fonte interna del governo, e poi a raccontare la favola del buon tecnico costretto a perdersi la carezza americana perchè perseguitato al telefono dalla cattiva politica.
La politica sarà pure cattiva, e trattandosi di Cicchitto sicuramente lo era, ma certo non peggiore di un personaggio che sulle relazioni ha costruito la sua fortuna e sul rigore dell’appartenenza alla destra economica, accademica e ideologica, e che oggi si permette nell’Italia che ha inaugurato la stagione dei suicidi seriali da lavoro, di vantarsi di un consenso costruito in questa maniere e di cui peraltro, data l’attendibilità delle fonti è certamente lecito dubitare.
Alla radio il servizio successivo era il ministro Passera che balbettava di recessione almeno fino alla fine dell’anno e credit crunch, senza la forza di proporre la benchè minima idea, per non dire soluzione.
Sono ministri. Per loro l’articolo 18 non è mai stato in vigore.

giovedì 22 marzo 2012

Il gioco è finito


E’ comprensibile che in una fase di drammatizzazione della crisi economica e politica italiana e internazionale il PD, su invito del Presidente della Repubblica, abbia dato il via libera al governo Monti.
Si poteva dar credito alla volontà di evitare un accanimento della speculazione finanziaria sul nostro paese, resa possibile dalla pervicace volontà della destra europea di non concedere margini di manovra alla BCE, mentre si negava da parte della stessa destra qualsiasi intervento risolutivo a favore della Grecia.
Allo stesso tempo il centrosinistra italiano aveva avuto la grave colpa di non costruire per tempo un serio progetto di alleanze e di governo, presentandosi così impreparato all’appuntamento con il crollo di Berlusconi.
In questo quadro è stato facile per Monti condurre una guerra lampo contro il sistema politico della seconda repubblica, e al tempo stesso giocare di sponda con Draghi per permettergli di iniettare per vie improprie liquidità nel sistema, a garanzia della tenuta della finanza pubblica europea, offrendo in cambio la riforma del sistema pensionistico italiano.
Si trattava di conquistare l’oggi per disegnare il domani, rispondere ai dettami della Merkel e contemporaneamente segnare il percorso verso una Terza Repubblica costitutivamente neo-liberale.
Il PD, e primo fra tutti Bersani, non ha capito questo gioco, che vede proprio in quel partito, e quindi nelle prospettive di governo della sinistra italiana l’obiettivo principale, o non ha saputo arginarlo a sufficienza.
Si è invece seduto a tavoli truccati sulla riforma elettorale, dando l’impressione di puntare contro i propri stessi alleati.
Ha permesso che riacquistasse spazio e visibilità la destra interna, ribattezzata montiana per l’occasione, senza difendere adeguatamente chi, come Fassina, altro non faceva che affermare la necessità di allinearsi ai percorsi di tutti i partiti della sinistra europea.
Ha dato l’impressione di farsi guidare da sondaggi fantasma, buoni per propagandare l’idea della disumana popolarità dei tecnici di governo.
Non ha saputo in definitiva uscire dal gioco di ruolo della politica italiana dell’ultimo ventennio, fatto di tatticismi, giravolte, fugaci innamoramenti e demolizione progressiva della democrazia, affogata nella misura oracolare del consenso.
Ora il gioco è finito, perchè si affonda la lama nella carne viva delle relazioni sociali, dei rapporti elementari di potere, della dignità del lavoro e in definitiva della civiltà per come la conosciamo, fatta di diritti e di spazi anche minimi di libertà nei luoghi di lavoro.
Questo significa abolire l’articolo 18 nel pieno della più grave crisi economica del dopoguerra, quando i rapporti di forza sono già sbilanciati oltre misura a favore del capitale, per chiamarlo come va chiamato.
Lo si fa peraltro nel peggiore di modi, con l’arroganza di chi non ha, nè vuole legittimazione popolare, perchè ritiene di avere già l’unica investitura che conta, quella dei mercati, delle accademie ammuffite, di una classe cosiddetta dirigente, ma che resta solo razza padrona e pure invecchiata male, con lo sguardo sempre rivolto all’indietro, incapace di cogliere il benchè minimo vento di cambiamento.
Ora, il PD è già morto, indipendentemente dai desideri di chi lo guida, abita o frequenta, perchè le modalità con cui è maturata la cosiddetta riforma del mercato del lavoro hanno solo ed esclusivamente questo scopo.
Il suo gruppo dirigente può scegliere di ignorare questo fatto ed esibirsi in funambolismi per tenere assieme i cocci di un progetto politico esaurito.
Oppure scommettere su quella maggioranza di italiani che nell’ultimo anno, dicasi 12 mesi, ha dimostrato di voler spendere il proprio voto e le proprie energie in un progetto di cambiamento, sul vento nuovo che ispira il socialismo europeo, sulla necessità evidente di ripensare un modello economico e sociale letteralmente catastrofico, e negare decisamente la fiducia al governo, portando il paese al voto.
Se lo farà subirà una scissione, dovrà affrontare una difficile campagna elettorale e rimettersi complessivamente in gioco, ma non cadrà, perchè anche se la politica sembra non essersene accorta l’Italia è cambiata.
E comunque avrà lasciato al popolo italiano la scelta su come usare la corda della storia.

martedì 20 marzo 2012

Grillismi


Premetto che sono iscritto ad un Partito dall’età di 16 anni, contandone oggi 35.
Premetto inoltre che ho avuto la fortuna di vivere in formazioni politiche in cui il prevalere dell’interesse pubblico generale sulle fortune private non è mai stato in dubbio, nè la volontà a tratti persino ottimistica di essere strumento di crescita di nuove classi dirigenti.
E’ quindi con quest’ottica viziata da lenti estranee, a quanto dicono, all’esperienza del 90%  degli italiani che mi permetto di svolgere alcune considerazioni sul Movimento 5 Stelle.
Quando nacque mi sembrava, senza offese, un mix di cose giuste dette male e cose sbagliate ben comunicate.
Poi è cresciuto, sempre unendo un entusiasmo ammirevole e ombre di arrivismo inconfessato.
Oggi si dibatte fra sondaggi lusinghieri e epurazioni interne, che stimolano appetiti e domande, in chi ne sogna la fine prematura, o forse fin troppo tardiva, e in chi semplicemente ne è incuriosito come da ogni novità di successo.
A me ha sempre ricordato la Lega prima maniera, e non ho cambiato idea.
Un pugno di volgarità urlata, l’idea sparsa a piene mani che non esista la complessità, ma solo interessi occulti che imbrigliano e deformano la naturale semplicità, il disgusto per ogni forma di rappresentanza, di mediazione, di organizzazione politica diversa da se stessi.
E poi il proclama continuo della propria alterità, il rifiuto delle categorie e degli schieramenti tradizionali, il culto del capo, che come ogni culto del capo che si rispetti si nega, proclamando una democrazia quasi anarchica, fatto salvo il momento sacro della sanzione, in cui il deviante è punito, senza nemmeno capire il perchè.
Come la Lega si affermò nella crisi della Prima Repubblica, innestandosi sul disgusto morale e sulla sfiducia dilagante, così il M5S si aggrappa al nulla che resta della Seconda, per candidarsi a protagonista della prossima.
Non è un fuoco di paglia, perchè non è pensato per essere tale, pur essendo molto pensato, come potrebbe adeguatamente riportare un buon esperto di tecniche di marketing sperimentale.
E’ il primo caso mondiale di partito in franchising, e visto il successo non è detto che sarà l’ultimo.
Offre un metodo, un logo, un testimonial d’eccezione e importanti campagne comunicative.
Chiede una rete di venditori, totale abnegazione, risultati e fedeltà ai dettami della politica aziendale.
Se il rapporto funziona si procede, altrimenti viene ritirata la licenza.
Parlare di espulsioni, come fanno i media per pigrizia, è quindi sbagliato, un’approssimazione per eccesso alla democrazia.
Qui la democrazia è un altrove, un non-concetto, nella terra degli uno vale uno, da leggersi Uno vale uno (con gli altri a far nessuno).
Oltre a essere un elemento di nessuna importanza, dato che la dinamica del successo elettorale è del tutto sganciata da qualsiasi rapporto con l’attività politica quotidiana sul territorio.
L’impegno degli attivisti, il lavoro degli eletti sono atomi di propaganda da giocare sulla rete e sui media, non elementi basilari di costruzione di una comunità e di un profilo politico.
Per questo possono essere degradati in una notte e squalificati in un bit, soprattutto se dimostrano di non aver capito nulla della realtà in cui sono inseriti.
Qualcuno pensava che organizzarsi, radicarsi, avrebbe potuto solidificare un consenso vissuto come riflesso. Sbagliato. Questo rischia invece di rendere evidenti i limiti, di spezzare il mantra della diversità antropologica, e soprattutto di inserire un granello di sabbia nella fluidità della perfetta assenza di opinioni diverse da quel PD=PDL=mafia.
Perchè, a ben guardare, le campagne di Grillo hanno una sola cosa in comune, e non è la strizzata d’occhio alla sinistra e ai suoi miti.
E’ piuttosto la capacità di individuare quei nodi in grado di fortificare l’assioma del sono tutti uguali e di sbatterli in prima pagina.
Così è stato per l’acqua, così è per la TAV, che non sono anelli di un percorso coerente, ma simboli forti del patto scellerato del sistema dei Partiti.
Che certo, in parziale conclusione, giocano proprio a rendergli la vita facile.

mercoledì 14 marzo 2012

Voglio un ministro del lavoro!


Dopo aver letto le ultime perle del ministro Fornero non mi resta alcun dubbio. 
C’è una ragione se in qualsiasi paese non dico democratico, ma civile i professori fanno i professori e la politica,intesa come polis, li tiene ben alla larga da qualsiasi ruolo istituzionale. 
Questa ragione è che non capiscono assolutamente nulla della vita reale, delle sue dinamiche e relazioni, persi come sono nei dibattiti e ritmi dell’Accademia.
Se questo non vale per tutti, certamente è innegabile per gli economisti di scuola liberale, la cui vita è spesa nello studio di modelli astratti, fondati su assunti dichiaratamente avulsi da ogni contesto.
Ora noi ci ritroviamo per ragioni imperscrutabili materie dense di realtà come il mercato del lavoro e il welfare, cui non giova mai un approccio ideologico, in mano ad una distinta signora la cui unica ambizione sembra essere l’affermazione positiva delle tante belle cose studiate, ascoltate e insegnate in tanti anni di università.
La signora peraltro, dopo aver esordito con le lacrime in diretta, ha recuperato con rapidità la via dell’arroganza astiosa, della superiorità saccente, del rifiuto di qualsiasi ragione non rientri in schemi logori come quelli di cui è impregnata la falsa coscienza che la agita.
Ciò di cui dovremmo tutti convincerci è che, poichè la sua religione vieta di utilizzare la spesa pubblica per aumentare l’occupazione, ne deriva che gli occupati dovrebbero essere disposti a mettere il loro lavoro in concorrenza con i disoccupati, così da trasformare un impiego stabile in una pluralità di impieghi precari, con saldo 0 di occupazione e negativo di diritti e retribuzioni.
Questo assunto le pare tanto ovvio da ritenere offensivo il rifiuto dei sindacati di condividerlo, applaudirlo e sottoscriverlo, soprattutto quando lei sarebbe disposta ad elargire in cambio una paccata di miliardi, già sottratti alle pensioni d’oro delle lavoratrici e dei lavoratori italiani.
Miliardi che evidentemente ora le appartengono, o meglio appartengono ad un governo da lei promosso a banda, se è vero che può disporne a suo piacimento, compreso un ricatto degno di un Brunetta qualsiasi.
A questo punto appare inutile dire che l’Italia ha bisogno di un’unica riforma del welfare, che si chiama reddito di cittadinanza, che in fase di recessione non esiste alcuna possibilità di crescita occupazionale, che non sia accompagnata da politiche pubbliche di stimolo, che abbiamo un gigantesco problema di moderazione salariale, giunto al punto di frenare anzichè esaltare la competitività di un sistema privato della domanda interna, come ribadisce una serie statistica infinita.
Inutile, spiace dirlo, per carenza di interlocutore, dato che il ministro competente somiglia ad un bambino abituato a giocare alla guerra, cui venga improvvisamente regalata una pistola carica.
Utile è invece invitarla a tornare alle precedenti occupazioni, per poter poi restituire a questo paese un ministro e una possibilità di futuro.

domenica 4 marzo 2012

Quel che penso, in due parole, della TAV


Ho sempre pensato che la Tav sia un’opera che nasce in uno di quegli assurdi incroci fra burocrazie ed interessi italiani e comunitari, dove ricerca spasmodica di finanziamenti, progettualità da tecnocrati, malintese interpretazioni dell’interesse nazionale si impastano in miscele indigeribili.
Chi abbia una memoria più lunga di cinque anni ricorderà che il corridoio 5 avrebbe dovuto unire Lisbona a Kiev senza passare dall’Italia. 
La ragione poteva sembrare piuttosto semplice. Fra l’Italia e il corridoio 5 ci sono le Alpi. 
Ma poichè questo avrebbe significato rinunciare ai molti miliardi di euro che l’Unione metteva a disposizione del progetto, nonchè, nell’opinione di alcuni, escludere il paese da ogni collegamento con l’Europa che conta, si ingaggiò una furibonda battaglia diplomatica per cambiare il tracciato, portandolo a Sud delle Alpi. 
Vinta la battaglia, persa la ragione.
Ciò che si era ottenuto era il diritto di investire una montagna di denaro pubblico in un’infrastruttura di dubbia utilità economica e funzionale, la cui realizzazione passava per lo scempio di un’antica valle glaciale, la Val Susa appunto.
Si potrebbe discutere a lungo se sia maggiore il livello di ottusità di una burocrazia europea che affida lo sviluppo di un continente al recupero di alcune ore nel trasporto merci fra Portogallo e Ucraina, o quello di una classe politica italiana che progetta linee ferroviarie ad alta velocità sulla direttrice nordovest-nordest, quando è del tutto incapace di garantire dignitosi collegamenti Nord-Sud.
Ma a questo punto sarebbe un dibattito fuorviante, perchè giorno dopo giorno, errore dopo errore, a essere pesantemente trascinata in gioco è la qualità della nostra democrazia.
Qualcuno dice che le istituzioni hanno il diritto di decidere e che il popolo ha il dovere di seguire, tantopiù che quelle istituzioni sono legittimate proprio dal voto di quel popolo. Vero, ma insufficiente, perchè omette il ruolo della politica, che è quello di convincere, al di là delle procedure formali della decisione.
La democrazia infatti non è il più efficiente dei sistemi politici possibili, perchè non è scindibile da sistemi decisionali lenti, aperti, complessi, ma sa essere il più efficace, perchè presuppone come punto di arrivo l’adozione di scelte dotate di consenso diffuso.
Chi vi intraveda invece una macchina ad alta velocità di costruzione di decisioni che si autoimpongono per la forza di maggioranze strettamente istituzionali, non solo non ha capito nulla, ma apre la strada a culture politiche profondamente antidemocratiche, anche se eventualmente poste al riparo del rito elettorale.
La militarizzazione di una valle non è la dura affermazione del diritto democratico di applicare la legge, contro la pretesa di minoranze violente di imporre con la forza la propria volontà.
E’ piuttosto la sconfitta della politica e delle sue classi dirigenti, perchè ne segnala la totale incapacità di trasmettere quello che essa ritiene essere il senso dell’interesse generale.
E’ questo che personalmente più mi preoccupa di questa partita, al di là del mio giudizio di merito sull’opera, che posso tranquillamente accettare come minoritario.
Il fatto che in 20 anni una classe politica assolutamente compatta nel suo giudizio sulla TAV non sia riuscita a convincere gli abitanti di un territorio dell’opportunità di un sacrificio, certamente profondo, in nome dell’interesse generale, e comunque della necessità di accettarlo, perchè costruito secondo gli strumenti della democrazia.
Non ci è riuscita, certificando ulteriormente la propria drammatica insussistenza, e oggi accetta di scendere sul piano dello scontro militare.
Per questo è tanto necessaria una moratoria immediata, un ritiro delle truppe che permetta di riportare tutti all’interno di un discorso razionale fra soggetti che devono riconoscersi reciprocamente.
Se non si vorrà fare, il rischio è che quel maledetto buco presto forerà la montagna, ma le scorie che ne usciranno non riguarderanno solo la valle, ma l’Italia intera.

giovedì 1 marzo 2012

Veltroni e il gioco dei quattro cantoni


Veltroni si è arrabbiato, perchè lui è di sinistra, anche se di destra non è un’offesa. 
E’ talmente di sinistra da averne epurato ogni riferimento anche solo lessicale dal partito che si vanta di aver fondato, da aver condotto la sua prima e unica campagna elettorale da leader con l’unico obiettivo di cancellare dalla rappresentanza le culture socialiste, comuniste ed ecologiste, da aver corteggiato il Berlusconi statista. 
Oggi, poichè è di sinistra, non solo appoggia il governo Monti, che in qualsiasi quadrante dell’universo sarebbe definito di destra, ma ne auspica la continuità, che, se la politica non è un’opinione, significa tra l’‘altro continuità di alleanza con quell’autentico baluardo di democrazia che è il PDL.
Per rendere più chiaro il messaggio che lui è di sinistra, rifiuta il taboo dell’articolo 18, che nell’attuale neo-lingua dei tecnici di governo significa aprire ai licenziamenti discrezionali, primo passo verso una società fondata su libertà, opportunità, diritti e innovazione.
Veltroni vuole essere riconosciuto come parte della sinistra, e forse un loden non l’ha mai indossato, ma non si rende conto che otterrebbe questo risultato con molta facilità se convocasse una conferenza stampa per annunciare il suo ritiro definitivo dalla politica, anzichè per riesumare pessime categorie come quella delle due sinistre.
Farebbe così finalmente corrispondere per una volta i fatti di oggi alle sue parole di ieri, anzichè candidarsi a protagonista dell’ennesima piroetta, di un nuovo tentativo di ridurre il futuro della sinistra italiana al futuro del PD, e il futuro di quel partito ad un nuovo giro del gioco dei quattro cantoni.
Perchè è questo che in definitiva è insopportabile in Veltroni e in molti altri protagonisti della sua generazione, che ha purtroppo prodotto sin troppi epigoni.
L’interpretazione della politica come gioco di ruolo e di posizionamento, per cui non conta mai nulla ciò che si è o ciò che si propone, e tantomeno il merito dei problemi, ma solo la propria collocazione nel dibattito interno, sempre con un occhio attento alle mosse del vicino, sempre reattivi e in movimento, per occupare il primo spazio disponibile e dichiararlo proprio.
Veltroni è stato a destra, al centro e a sinistra, liberale, socialista, comunista e mai-comunista, laicissimo e vicino ai cattolici, e lo stesso si può dire, a tempi inversi, di tanti suoi compagni di Partito.
Naturalmente sempre parlando al paese, ma con le orecchie attente solo ai commenti interni e ai movimenti di sottufficiali e truppe in schieramento.
Solo che oggi il gioco è finito, perchè in ballo ci sono il destino dell’Europa, del suo modello di welfare e di più generazioni, che hanno bisogno di una sinistra che sappia andare molto oltre le beghe di un partito, per quanto ricco di storia e di risorse.
Salvo decidere che un altro giro di valzer per se stessi e il proprio specchio valgano la vittoria per assenza di concorrenti dei Draghi e dei Monti.
Questo si, senza dubbio, sarebbe molto di destra. Con o senza il loden.