martedì 29 novembre 2011

17 anni sono lunghi a morire


Dal 1994 l’Italia ha vissuto con una prospettiva straniante, dove il focus era perennemente centrato su Silvio Berlusconi.
Non ci era possibile cercare altri punti di vista, soffermarci sui grandi rivolgimenti globali, praticare e apprezzare il cambiamento, perché tutto iniziava, finiva e ritornava in una sequenza ripetuta all’infinito di gesti, parole, messaggi identici.
Si poteva essere berlusconiani quindi di centrodestra, antiberlusconiani quindi di centrosinistra, con la flebile variante finale dei nonberlusconiani di centrodestra.
Sempre, comunque tutti segnati dal riferimento al Cavaliere.
Quando lo schema ha iniziato a funzionare la Cina era un paese del terzo mondo e internet una parola per addetti ai lavori, l’Euro un ipotesi e i cellulari un oggetto di lusso.
A molti italiani Berlusconi non è mai piaciuto, ad altri a fasi alterne, altri non lo abbandoneranno mai.
Certo è che non ce ne siamo mai stancati, se è vero che la partecipazione al voto degli italiani è sempre stata elevata, e che ogni volta che si sono affacciati elettori stanchi del bipolarismo questi sono sempre usciti dai ranghi del centrosinistra. Ci fu un tale che una volta provò a dire che non si doveva parlare di Berlusconi, salvo chiedere voti utili a sconfiggere l’innominato. Il risultato del suo sforzo fu una vittoria senza precedenti per il principale esponente del campo avverso. Berlusconi appunto.
Ora si è messo in un angolo, e noi vaghiamo come marinai notturni privati improvvisamente della stella polare.
Guardiamo un pugno di uomini e donne scesi da Marte a governarci e sembrano piacerci. Piuttosto anziani, eleganti, sobri, dicono cose normali e minacciano misure impressionanti. Di molti di loro non si conosceva il nome, non si erano mai visti in TV, qualcuno ha un’ombra oscura. All’estero li conoscono, si fidano, grazie a loro ci parlano di nuovo. Il Presidente della Repubblica li ha scelti, il Parlamento li ha adottati. Non li avrebbe mai votati nessuno, ma sembrano il governo che avremmo sempre desiderato. Secondo il numero due di quella che fu l’opposizione sono la prova che i sogni possono avverarsi. Per qualcuno di quelli che ci governava sono la morte della politica, per altri con un comune passato scudocrociato sono la politica finalmente rinata, l’apogeo della democrazia. Un illustre antiberlusconiano ha sostenuto che in fondo la tecnocrazia non sarebbe una tragedia, ma anzi, forse, il compimento della Costituzione. Piacciono persino a Grillo e ai nemici della Casta, come si addice a professori e banchieri.
Io mi guardo attorno, e piacciono a sinistra. Voglio proprio dire a sinistra, quella vera, quella che il PD è troppo moderato, che Vendola non poi il massimo, che bisognerebbe fare la rivoluzione, che Berlusconi dovrebbe marcire in galera. E ho il sospetto che poi, in fondo, tutto si riassuma in quell’invocazione delle manette, e che quella sia l’eredità più velenosa del berlusconismo.
Averci lasciati disarmati e in attesa plaudente e un po’ ansiosa davanti ad un governo che incarna tutto ciò a cui ogni sinistra europea si oppone, con l’idea che l’azione di Monti sarà il prosieguo naturale della festa di piazza del Quirinale.
No, mi spiace, ma non è il nostro governo, come il governo Badoglio non fu il governo della Liberazione.
E prima ci renderemo conto che una destra perbene è in questo momento altrettanto dannosa di una destra cialtrona e populista meglio sarà per tutti.
Soprattutto per l’Europa e l’Italia.

sabato 19 novembre 2011

A margine del governo Monti


Di cosa sia il governo Monti si è scritto molto in settimana, interpretando ciascuno i suoi desideri, più che la realtà di un parlamento diviso fra riottosi ed entusiasti, oltre la collocazione ufficiale dei partiti.
Si tratterà di capire nei prossimi mesi quale dei due gruppi prevarrà, anche per comprendere in che direzione verrà instradato il binario della Terza Repubblica.
In che direzione vorrebbero vederlo gli elettori è già chiaro, quello di un rinnovato bipolarismo, che non escluda le forze politiche organizzate, ma che abbia al centro il rapporto fra territorio e rappresentanza.
Questo ci dice il milione abbondante di firme raccolte sul referendum elettorale, che rappresenterà il vero convitato di pietra al tavolo del governo.
A proposito di rappresentanza, mi ha molto colpito in negativo la scelta di Bersani di caratterizzare il ruolo del suo partito sul fronte della riduzione del numero dei parlamentari.
Non comprendo infatti la necessità di concentrarsi su un tema di demagogia spicciola, che qualora dovesse peraltro essere presa sul serio si tradurrebbe immediatamente in una sottrazione di democrazia, quando dal PD ci si aspetta in questo quadro tutt’altro, soprattutto di essere garante della sostenibilità sociale dell’esperimento Monti.
Questo sarebbe invece il momento di riconoscere che, se possiamo tirare comunque un sospiro di sollievo per la cancellazione del governo del baratro, questo è dovuto anche alla tenuta delle clausole di salvaguardia iscritte nella Costituzione, fra cui la designazione parlamentare dell’esecutivo, il bicameralismo perfetto, l’elevato numero dei parlamentari e il ruolo di garanzia della presidenza della Repubblica. 
Il complesso di questi elementi ha resistito persino alle nefandezze del porcellum e della compravendita d’aula, portando infine alla sostituzione di Berlusconi.
Tralasciando l’elezione diretta del premier, in che situazione saremmo stati con una sola camera di 315 parlamentari, di cui 189 di maggioranza e 126 di opposizione, tutti nominati dalle segreterie di partito?
Ma ci vorrebbe un’altra legge elettorale si dirà, e una diversa e migliore classe politica. 
Certo, ma potremmo sceglierne anche di peggiori, ed è per questo che i costituenti hanno voluto camere ampie e dai poteri analoghi. Se si disperde il potere, aumenta comunque il controllo.
Anche a questo si dovrebbe pensare, quando si vuole strizzare l’occhio alle forme peggiori di antipolitica, e soprattutto quando si guarda al proprio interesse immediato e alla tentazione di risolvere difficoltà politiche con il taglio ulteriore dell’accesso alla rappresentanza e quindi al ruolo parlamentare.
Da questo punto di vista si potrebbe peraltro chiedere a Veltroni quanto abbia giovato a lui e al paese la riuscita estromissione da questo parlamento di tante culture della sinistra.
A Bersani consiglierei quindi di lasciar perdere improbabili ritocchi alla Costituzione, e di concentrarsi piuttosto, se di parlamentari vuole occuparsi, dei loro grandi e piccoli privilegi.
Suggerirei di eliminare lo scandalo dei portaborse, retribuiti in nero da onorevoli che si trasformano in caporali. Di eliminare la diaria, e di sostituirla con un ostello Montecitorio per i fuori sede e buoni pasto da 9 euro, come per i pubblici dipendenti.
Di cancellare vitalizi e assicurazioni sanitarie di cui non si comprende il motivo, vista l’eccellenza della previdenza e sanità pubblica.
E avanti così, su una strada che sono certo altri conoscono meglio di me.
Ma si lasci stare la Costituzione, scritta da donne e uomini per cui era ancora possibile guardare alla rappresentanza parlamentare come pietra angolare della democrazia, e non come merce di scambio del potere. Io ripartirei da li.

PS: ho letto che fra 5 anni nella Provincia di Ravenna il numero dei consiglieri scenderà a 12. Al di là del dibattito sulle province, il mio condominio ha una rappresentanza più numerosa, e nessuno si sogna di toccarla. Uno per scala è considerato un limite invalicabile…

domenica 13 novembre 2011

E’ tornata Tina. E non è una buona notizia.

There Is No Alternative. Così Margaret Tatcher era solita troncare ogni discussione sulle scelte del suo governo, ammantandole del segno dell’ineluttabilità. Non c’è alternativa rischia di diventare la parola d’ordine della fase che si apre in Italia, dove la politica, offesa dal ventennio berlusconiano, è tentata ancora una volta dalla fuga. Ad aprire la strada all’inevitabile è la caduta di Berlusconi, su cui è bene spendere alcune parole di chiarezza. Il regime non crolla sotto i colpi della mobilitazione di piazza, sconfitto sul terreno dell’opposizione alla “macelleria sociale”, ma pugnalato da Pierferdinando Casini, la cui mano è armata dai mercati finanziari, che a Berlusconi con ragione non perdonano l’inerzia. Il governo cade in un punto che oscilla fra centro e destra, e Monti ne è quindi la naturale conseguenza. Per la sinistra è una sconfitta, pesante, che forse ancora non cogliamo fino in fondo, perché non si può chiamare in altro modo una fase che costringe il PD a sostenere in posizione subalterna un governo che nasce circondato dai commissari del FMI. Il PD potrebbe rifiutarsi, potrebbe invocare il voto e immediatamente ottenerlo. Non può farlo, ed è qui che TINA entra in scena al culmine del dramma. Al governo Monti, realmente, non c’è alternativa, perché lo spread a 575, i tassi sui BTP al 7,25% non sono un’invenzione, ma il punto prima del baratro, quello a cui in settembre si guardava con un’alzata di spalle per sostenere che il problema del debito era solo teorico. Chi faccia finta di non comprendere questo non è un difensore della povera gente, ma un cinico piazzista di voti, o un rivoluzionario da salotto, perché dimentica di dire che l’alternativa a Monti non sarebbe stato il voto domattina, ma essere accompagnati alle urne da due mesi di governo Berlusconi e di tempesta finanziaria. E soprattutto omette la più grande, tragica, imperdonabile colpa del regime di Arcore, quella di aver negato per anni la crisi e di averci trascinati lontano dal cuore politico dell’Europa, pericolosamente vicini alle periferie del mondo, dove la finanza detta legge e ordine, dove, non da oggi, non c’è appunto alternativa, dove la democrazia è comunque un guscio vuoto. E’ da quel punto che oggi dobbiamo toglierci al più presto, così come dobbiamo presto tornare alle urne. I due punti non sono in contraddizione. Dobbiamo recuperare subito credibilità, perché è la precondizione per recuperare la sovranità, attualmente di fatto in mano ai mercati, e poi rapidamente esercitarla, per non assumerne la perdita come naturale. La sinistra deve reggere Monti, perché altrimenti si sosterrebbe soltanto sull’aria rarefatta e irresponsabile della destra europea, per realizzare un programma di tre punti. Patrimoniale pesante, per liberare la finanza pubblica dall’oracolo dei mercati e la politica dall’alibi della speculazione. Riforma della legge elettorale, rispettando lo spirito del referendum in attesa, per restituire ai cittadini la possibilità di scegliere serenamente il proprio futuro. Cancellazione dei privilegi della politica, facendo bene attenzione a non scadere nella demagogia, e da qui nella riduzione di democrazia. La sinistra deve reggere Monti, e intanto chiarire immediatamente che il suo futuro prossimo non è Monti, ma una coalizione fondata sul Nuovo Ulivo e le primarie, per realizzare quel programma che nessun governo tecnico, di larghe intese o del Presidente potrà mai realizzare. Ricostruire il paese, per cambiarlo dalle fondamenta

domenica 6 novembre 2011

Se il problema è Matteo Renzi

La settimana si è aperta con le immagini terribili delle 5 terre sommerse dal fango, con l’incursione potente nel campo del centrosinistra di un narrazione di destra, con il governo impegnato in genuflessioni impotenti davanti alla BCE.
Si chiude con l’alluvione di Genova, le prospettive sempre più prossime di un governo di malanno pubblico, gli ispettori-commissari del FMI sguinzagliati per l’Italia.
In mezzo, il piccolo evento santoriano, che ha definitivamente seppellito l’idea del duopolio televisivo, con una trasmissione di rara inutilità.
Sullo sfondo la trama dello spread e del suo andamento, un cardiogramma da infarto in contrappunto ad una politica economica dall’encefalogramma piatto.
In questo quadro è indubbio che l’attenzione della sinistra italiana si sia focalizzata soprattutto su Matteo Renzi, e questo è un problema.
Innanzitutto perché non lo merita, tanto sono carenti di originalità i contenuti della sua proposta politica, già ben rappresentata all’interno del centrosinistra dal vicesegretario del PD.
In secondo luogo perché dimostra quanto sia facile dettare l’agenda al nostro campo, se è vero che basta inventarsi un personaggio in un fine settimana di ottobre per indirizzarci immediatamente all’inseguimento.
Tutti dietro al pallone, come in un campetto di periferia.
Stavolta, peraltro, il pallone nemmeno abbiamo capito dove fosse.
Non parlate di rottamazione, ci hanno detto, guardate alle idee.
E tutti a discutere delle idee, di quanto fossero anni ’80, di destra, quasi berlusconiane, addirittura uscite dal computer che custodisce i segreti del Grande Fratello.
Invece il problema è proprio la rottamazione, orrendo termine per suggerire il totale, drastico ricambio della classe politica, ovvero un’esigenza sentita come reale, forse prioritaria da una parte enorme dell’elettorato.
Se lascerà che questo tema abbia diritto aperto di cittadinanza e diventi manifesto politico soltanto di Renzi, la sinistra correrà un grosso rischio, perché permetterà ad idee del tutto minoritarie di prendere l’ascensore della voglia di cambiamento ridotta alla sua forma più grezza, quella del rinnovamento delle facce.
Che peraltro non è un trucco, ma un tema reale, perché non si è credibili nell’affermare come un mantra che è cambiato un mondo, lasciando che ad interpretarlo siano ancora i volti dei mondi passati.
Si vuole riconsegnare Renzi al vecchiume delle sue idee? Bene, allora si assuma e si pratichi da subito un impegno per il rinnovamento reale e in profondità della classe politica.
Altrimenti avremo, temo, delle brutte, quanto evitabili, sorprese.