lunedì 26 dicembre 2011

Favola di Natale


Tanto tempo fa viveva in questo paese un sovrano decadente e imbroglione, circondato da una sfacciata corte dei miracoli.
Regnava ma non governava, preoccupato dal tesoro del Re molto più di quello dello Stato, e tutt’intorno era un affaccendarsi di comparse arraffone, protagonisti per un giorno, luci della ribalta per l’esibizione del nulla, mentre la tempesta spazzava la terra, e rabbia, dolore e rivolta scuotevano il popolo.
Il Re era nudo da sempre, e fiero ostentava le sue nudità, e anche per questo da molti era amato.
Era un re brigante, un re giullare, un re senza corona.
Tanto tempo fa non pochi sognavano la Repubblica, e si battevano per averla.
Erano nostalgici di un passato opaco, visionari privi dell’ultimo miglio, volpi giovani e vecchie, pure qualche avvoltoio invecchiato.
Erano divisi e rissosi, ma avevano belle bandiere e amavano la verità.
E intorno a loro si muoveva commovente l’onda di un popolo che non si era mai arreso, che aveva ancora l’energia per l’ultima bracciata, quella che ti risolleva e non ti manda a fondo, che in riti spesso stanchi e spesso nuovi celebrava la propria forza ancora viva.
Non si viveva bene in quel paese incattivito da decenni di inviti alla solitudine, di porte sbarrate, di storie futili e perse in se stesse.
Ognuno per se e tutti dietro a me, era il motto del sovrano che aveva conquistato il paese.
Poi vennero i giorni del vento e della pioggia, del sole oscuro e dei lupi alle frontiere. 
Il popolo ebbe paura, si spaventarono anche i silenti, voci sempre più forti si levarono a chiedere uno scudo, protezione, la testa del Re se serviva.
Fu allora che il Grande Vecchio parlò, la Corte sparì, e arrivarono gli Altri.
Quelli che non c’erano mai stati negli anni del regno e della resistenza, quelli che avevano continuato i loro affari nelle banche, nei giornali, nelle università, quelli che non avevano preso parola nè insulti, quelli che nessuno aveva conosciuto e voluto.
Arrivarono e dissero che toccava a loro, e tutti o quasi dissero che era il loro momento. E chiamarono privilegi i diritti, per chi aveva sempre pagato annunciarono sacrifici, promisero un futuro di gioia dopo un lastrico di dolore. Come si conviene ai credenti.
Al popolo piacquero, perchè erano lontani da ciò che conosceva, e ciò che conosceva ormai perduto. 
Ma non ci furono feste nelle piazze, non c’era energia nell’aria da catturare, una nebbia ancor più spessa avvolgeva il futuro.
Da qui in avanti la storia è sconosciuta e aspetta di essere scritta.
Ma noi sappiamo cosa sarebbe servito a quel popolo. 
Avrebbe dovuto aprire gli occhi e riconoscere l’altro come fratello e compagno, e insieme a lui prendere per mano il cambiamento. 
Avrebbe dovuto osare, perchè non c’è speranza per chi ripete un passato di errori. 
Avrebbe dovuto pretendere di scegliere, sciogliere la paura, gettarsi a testa alta nel futuro. 
Avrebbe dovuto fare questo e molto altro, ma soprattutto non arrendersi a ciò che è imposto come inevitabile.
Perchè non c’è domani per chi abbassa la schiena sperando di schivare il colpo.
Buon Natale.

domenica 4 dicembre 2011

Se Roma è il sintomo, Berlino è la malattia. Unica cura l’Europa


Un governo ottuso di conservatori regge la Germania, la Francia è sotto ricatto, l’Italia vive la peggiore notte politica della sua storia repubblicana.
Gli Stati Uniti non hanno la forza di esercitare alcuna funzione egemonica sul vecchio continente. La crisi globale non poteva innestarsi su un quadro peggiore.
Appare infatti evidente che uno dei fattori che maggiormente incide sull’incapacità di costruire nuove regole e nuovi equilibri nelle dinamiche della finanza e degli scambi mondiali, e quindi di indicare una via di uscita duratura dall’attuale fase di instabilità, sia l’assenza politica della maggiore area economica del pianeta, l’Europa.
Dall’Europa non si può prescindere, l’Europa non esiste. Non solo e molto peggio. L’Europa è oggi seriamente a rischio anche come unità economica, per incapacità, debolezza  o assenza di volontà dei suoi maggiori aderenti.
E’ opinione diffusa che l’epicentro del problema sia l’Italia, con il suo impronunciabile debito pubblico e, fino a ieri, la sfacciata inconsistenza della sua leadership politica.
Non è così.
L’epicentro del problema è ed è sempre stato la Germania e la totale assenza di visione del gruppo dirigente conservatore al potere.
L’Italia è debole , presta il fianco alla pressione finanziaria di chi scommette sulla fine dell’Euro, è stata trascinata in un limbo periferico, ma continua ad essere troppo grande per fallire in solitudine. Ma è la Germania, in una UE dalla governance bloccata, ad avere la responsabilità delle scelte sul futuro, e in questo momento è prigioniera di un’ideologia che mischia nazionalismo passivo e liberismo.
Non si può infatti definire in altro modo l’atteggiamento di chi, pur sapendo che nessun paese può reggere nemmeno a breve termine la crescita esponenziale dei tassi di interesse, in assenza di interventi massicci della propria banca centrale, insiste nel mantenere la BCE incollata al proprio ruolo di bastione del rigore e del monetarismo.
Lasciando balenare l’idea che forse la stretta si potrebbe un po’ allentare, ma solo a patto di sacrifici umani, di misure che, pur se recessive, indichino la disponibilità alla contrizione morale.
Il momento è eccezionale, ma viene affrontato da Berlino come se il liberismo non avesse già dimostrato la propria fatale vocazione alla crisi e la propria assoluta incapacità di governarla, e come se i paesi del Mediterraneo altro non fossero che uno dei tanti Sud del mondo, cui far ingoiare il veleno dei piani di ristrutturazione.
C’è un cupio dissolvi in questo approccio da parte di un paese che ha avuto e ha nell’Unione Europea il proprio primo mercato commerciale e finanziario, nonché un’indiscussa funzione di guida potenziale.
Il crollo dell’Eurozona sarebbe certo fatale per Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Francia, ma non lascerebbe la Germania sovrana sulle macerie di un continente. Ne sarebbe piuttosto sepolta, chiusa nelle proprie anguste dimensioni di piccola potenza nazionale in un mondo che richiede ben altre dimensioni.
La destra europea sta distruggendo le radici sociali e culturali dell’integrazione continentale. E’ un gioco molto pericoloso e intrinsecamente populista, anche quando veste i panni modesti di Angela Merkel o dei suoi commissari mediterranei. Perché nasconde i problemi, fingendo che esistano soluzioni nazionali a problemi che sono iscritti nello statuto della BCE, nell’assenza di politica europea, nei parametri di Maastricht, nell’ossessione per la deflazione, che prescinde da ogni considerazione di politica economica.
Non c’è soluzione della crisi, se non si saprà uscire rapidamente e con forza dai confini degli stati nazionali e dei residui ideologici del neo-liberismo.
La destra è impossibilitata a farlo.
La sinistra saprà costruire rapidamente un proprio profilo non solo europeista, ma europeo, che sappia indicare la via degli Stati Uniti d’Europa e di un ritorno a Keynes, inteso come primato dell’occupazione, della redistribuzione e del governo pubblico dell’economia?
La sentenza non spetta ai posteri, ma a noi.