domenica 19 agosto 2012

L'ILVA è il passato o il futuro dell'Italia?


La vicenda dell’Ilva misura il livello della crisi italiana, molto più di quanto facciano le statistiche sul crollo del PIL, sulla crescita della disoccupazione e del precariato, sul calo dei redditi e l’erosione del ceto medio.
O per meglio dire, illumina tutti questi dati di una luce diversa, scoprendo un paese lontano da quello che ancora sopravvive nell’immaginario nazionale.
In un paese del G7 non dovrebbe esistere un caso ILVA, non si dovrebbe nemmeno contemplare la possibilità di un conflitto da anni ’70, in cui il diritto alla salute di un intero territorio venga fatto scontrare con la continuità del lavoro.
Questo perchè quella voce negletta del bilancio nazionale, gli investimenti in bilancio e innovazione, è esattamente il vettore che consente di adeguare le ragioni di un’economia industriale alle esigenze di tutela ambientale proprie di una società sviluppata.
L’industria di base non è scomparsa da Germania, Francia, USA, Giappone, per scaricare tutte le proprie esternalità sui paesi emergenti.
Ha certo ridotto i propri volumi, ma si è evoluta, alzando il proprio livello di sostenibilità.
In Italia questo non è accaduto. In Italia la scelta si è giocata fra smantellamento di interi comparti produttivi e loro mantenimento in condizioni inalterate.
In Italia la Thyssen Krupp, la stessa Thyssen Krupp che in Germania è all’avanguardia nelle condizioni di sicurezza del lavoro, può condannare a morte 7 operai per la mancanza di estintori.
In Italia l’ILVA può porsi il problema di eludere o evitare l’abbattimento dei livelli di inquinamento, perchè può contrattare in termini ricattatori le condizioni della propria presenza.
Qui sta il problema per la politica.
Se la produzione di acciaio è un interesse nazionale, così come l’industria dell’autotrasporto, e si può convenire che lo sia, questo deve valere in entrambe le direzioni.
Si dovrà garantire il mantenimento dei presidi industriali, ma questi non potranno avere il potere di ricatto che pretendono di mantenere.
Non può valere il principio che se all’Italia serve l’acciaio allora questo potrà essere prodotto solo alle condizioni dettate dalla proprietà degli stabilimenti, perchè questo percorso logico è esattamente il contrario della tutela dell’interesse collettivo, che pretende invece che proprio laddove sia più alto il valore strategico di una produzione debba e possa essere più forte il potere di condizionamento pubblico.
Dopo di che, che le classi dirigenti italiane, economiche e politiche, abbiano perseguito nell’ultimo ventennio una cosciente e coerente operazione di declassamento del paese, con l’ambizione di abbassarne gli standard sociali e produttivi, è ormai un segreto di Pulcinella.
Ora Bersani dice che il tema centrale debba diventare la ripresa di una capacità di politica industriale. 
Bene, io sono per prenderlo in parola e rilanciare.
In Italia i ceti possidenti hanno sempre saputo fare solo una cosa, sfruttare rendite di posizione fino al loro esaurimento.
Oggi l’esaurimento è prossimo, e noi dobbiamo decidere se arrenderci definitivamente al declino e accettare di essere un ricco paese della periferia, dove la ricchezza è naturalmente concentrata nelle mani di pochi, o provare a recuperare un ruolo che che ci è stato proprio, all’interno della cornice europea.
All’Italia andrebbe però detta la verità, andrebbe spiegato se l’ILVA, così come la FIAT di Marchionne, è un residuo del passato da portare rapidamente nella modernità, o l’anticipo del nostro futuro, come tutte le scelte degli ultimi anni farebbero pensare.
Detta la verità, la sinistra avrebbe l’obbligo di elaborare una proposta di rilancio che passi per lo sblocco delle rendite attraverso la tassazione e per una stagione di investimenti pubblici nei settori chiave dell’economia, nonchè per un rafforzamento dei diritti, e quindi del potere d’acquisto, dei lavoratori.
Se suona vecchio, è solo perchè l’attualità del mercato all’italiana è quella che ci ha portati al punto in cui siamo.

sabato 11 agosto 2012

La sinistra alla prova di maturità


La scelta di SEL di contrarre un’alleanza con il PD in vista delle prossime elezioni politiche ha comprensibilmente aperto un intenso dibattito a sinistra.
Pesa infatti la rottura di un possibile fronte con l’IDV, che non ha più in SEL una sponda disponibile a coprirne gli eccessi verbali finalizzati a massimizzare visibilità e consensi, in cambio di un potenziale e del tutto teorico rafforzamento dell’ala sinistra della futura coalizione progressista.
Pesa allo stesso tempo, e apparentemente in misura assai maggiore, la rinuncia ad ogni veto, peraltro mai posto in questi termini dagli organismi dirigenti di SEL, nei confronti di possibili offerte di collaborazione all’UDC nel corso della prossima legislatura.
In questa combinazione molti hanno voluto vedere la disponibilità del partito di Nichi Vendola ad un percorso di continuità con Monti, dato che, in una visione manichea del tema delle alleanze, uscirebbe il partito della più intransigente opposizione, l’IDV, per entrare il più convinto sostenitore del governo in carica, l’UDC.
Fingendo di dimenticare, o considerandolo un elemento dissonante e quindi pretestuoso, la mossa di Pierluigi Bersani, che presenta una Carta di Intenti debole di fattori cogenti, ma in linea con il linguaggio e la direzione del socialismo europeo, e individua in SEL il primo interlocutore a cui presentarla per aprire un confronto, manifestando quindi simbolicamente l’intenzione di orientare a sinistra il perimetro dell’alleanza.
Contemporaneamente, si individua nelle primarie il metodo di definizione dell’identità e del programma del futuro centrosinistra, e si chiarisce progressivamente che l’apertura all’UDC riguarda la fase post-elettorale, nonostante la nebbia prolungata sulla trattativa sulla legge elettorale renda lecita qualsiasi ipotesi di presentazione alle urne.
Per me, che a SEL sono iscritto dal primo momento, e con qualche responsabilità di direzione politica, in tutto questo non c’è nulla di stupefacente, ma l’esito non scontato, data la debolezza della nostra forza istituzionale e organizzativa, di un’iniziativa politica fondata sulla costruzione di un nuovo centrosinistra di governo, libero dai dogmi neo-liberali, e aperto alla sfida del cambiamento.
In altre parole, credo che SEL nell’ultima settimana abbia segnato un successo, e che da questo si dovrebbe ricavare nuova energia per affrontare le primarie e quindi per rafforzare l’apporto della sinistra negli equilibri politici che si determineranno.
Vedo invece che è aperta una discussione che sfocia nel conflitto, e che questa va oltre la verve polemica di chi prova a recuperare consenso a posizioni chiuse nel proprio recinto minoritario.
In particolare, si sostiene che il governo Monti, e la fase che l’ha accompagnato, avrebbe già cambiato in modo irrevocabile il sistema politico italiano, costringendo tutti a fare i conti nel futuro prossimo prevalentemente, se non esclusivamente, con il giudizio che si da sul suo operato, e quindi ipotizzando che le uniche alleanze dotate di senso sarebbero quelle fra chi lo ha sostenuto da un lato e chi si è opposto dall’altro, al netto di alcune evidenti idiosincrasie ideologiche.
Si attribuisce al governo Monti un valore costituente, di nuova faglia delle politica italiana, in sostituzione del berlusconismo, più prossima alla classica divisione fra destra e sinistra, nella variante liberisti-rigoristi contro antiliberisti-presunti tali.
In questo modo non ci si rende conto, o peggio si sceglie il tanto peggio tanto meglio, di aderire esattamente allo schema di chi ha sommesso fin dall’inizio sull’esecutivo dei tecnici come strumento di uscita da destra dal berlusconismo, come chiave di una nuova Costituzione materiale e di un nuovo arco costituzionale, rappresentato appunto dai partiti dell’attuale maggioranza o, meglio, dalle loro evoluzioni.
Dal mio punto di vista, questo era il rischio maggiore posto dal governo Monti, la sua capacità di imporsi non come parentesi emergenziale, ma come virus capace di rigenerare il sistema a propria immagine e somiglianza.
Rischio apparentemente sconfitto, fortunatamente, se non si commetterà l’errore di contribuire in extremis a rivitalizzarlo.
La stessa idea d’altronde che quella fra liberisti e antiliberisti sia l’unico elemento di demarcazione sensibile, o comunque il prevalente, è sbagliata e illusoria.
Ne esistono infatti almeno altre due, di non minore importanza nell’Italia odierna, quella fra europeisti e anti-europeisti e quella fra difensori della Costituzione formale, imperniata sul tema della rappresentanza, e sostenitori dell’antipolitica, ovvero della demolizione dei perimetri costituzionali.
E io credo che la sinistra, per la sua storia e per il suo presente, non possa che stare dalla parte dell’Europa e delle istituzioni costituzionali, anche laddove, come ora, ne ravvisi limiti  e debolezze ai limiti del decadimento.
E non mi nascondo che elementi come il Fiscal Compact rappresentino nel breve, medio e lungo periodo il peggior attacco alla sovranità democratica e il miglior strumento di demolizione dell’unificazione continentale, ma allo stesso tempo non posso ignorare che la loro natura di trattato ne impedisca la denuncia unilaterale, pena un forte vulnus all’Unione Europea, e che quindi prima di arrivare per inerzia a quel punto si debba fare ogni sforzo per modificarlo nella sede propria, che è quella comunitaria.
Credo che questi ragionamenti non dovrebbero accompagnare solo i venduti del PD e i neo-traditori di SEL, ma interessare tutta la sinistra, prima che questa sia attraversata dal cupio dissolvi dell’auto-riduzione al ruolo di opposizione, forte o testimoniale che sia, ad un altro quinquennio di montismo, per il gusto tra gli altri di veder confermata la propria previsione di un PD definitivamente svuotato di ogni sussulto progressista.
I prossimi anni non saranno comuni. Potranno essere ricordati come quelli in cui l’Europa ha scelto la strada dell’unificazione politica o del ritorno alle monete e quindi agli Stati nazionali. 
Come quelli in cui alla crisi si risponderà con un nuovo ruolo del pubblico e del welfare o con il prevalere di logiche neo-vittoriane. 
Come quelli in cui si esce dalla crisi in piedi o con i piedi in avanti.
La sinistra oggi non è debole. Non lo è in Italia, nè in Europa, nè nel mondo. 
Ma in Italia rischia di giocarsi la pelle fra paure e miserie, per timore della democrazia e delle sue regole, per irrisolti problemi identitari, perchè quando pensa a Obama non riesce a ricordare lo slogan che ne sancì la vittoria, ma i limiti del suo governo.
Certa sinistra italiana pensa di avere le forze per sconfiggere da sola il capitalismo finanziario internazionale, ma ha paura di contaminarsi coi sepolcri imbiancati dell’UDC, o pensa ancora che per vincere una guerra si debba prima bombardare il quartier generale.
Noi, più modestamente, cerchiamo la leva che ci permetta di sollevare il mondo, se ne avremo la forza. Ma sempre ricordando che la politica deve guardare al domani, ma ha bisogno, per essere tale, di un qui e un’ora.

martedì 7 agosto 2012

Fra proverbi e realtà


Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei, recita la saggezza popolare, come a dire che in un mondo di cattive compagne si starebbe meglio soli.
Beppe Grillo l’ha capito tanto bene da farne l’unica, reale linea politica del suo movimento.
Soli contro tutti, dato che gli altri sono per definizione compromessi, laidi, incapaci e certo, forse, un po’ mafiosi.
Il più pulito c’ha la rogna, per restare all’antico.
Ognuno per se e Dio per tutti, e già che c’è ci guardi anche dagli amici, e così il primo che s’azzardi a mettere il naso fuori, a suggerire che, certo, le alleanze si fanno sempre e solo con gli elettori, ma si potrebbe anche provare a smettere di credere che la ragione cessai sull’uscio della propria casa, e quindi proporre una coalizione, quel qualcuno appunto sarà fulminato.
Incoerente, venduto, traditore, poltronaro, con la variante di chi l’aveva sempre saputo e di chi ha subito la peggiore delusione della propria vita, che in questo caso si presume giovane.
Tutto questo in assenza di qualunque considerazione del contesto, della storia e dell’attualità.
Il contesto è quello, pesantissimo, di un paese a rischio di perdere ciò che resta di una sovranità traballante, con un sistema politico a brandelli, uno stato di viscerale frattura del vincolo di rappresentanza, un crollo verticale della propria capacità economica, in un quadro di finanza pubblica preoccupante.
La storia è quella di un partito, SEL, nato dalla scommessa di poter portare in un ambito di governo le culture politiche della sinistra e dell’ambientalismo, altrimenti confinate per propria scelta nella ridotta del massimalismo e dell’ideologia.
L’attualità è quella inattesa di un governo “tecnico”, nato con l’ambizione di riscrivere a propria somiglianza un sistema politico in decomposizione, e ridotto a fallimentare amministratore straordinario dello Stato, sorretto dai voti del PD, e avversato da tutte le altre forze della sinistra politica e sociale.
Resta da ricordare che il voto del 2008 ha consegnato alla destra e a Berlusconi il governo fino al 2013, e non ad altri, e che quindi, per amor di verità, le politiche di Monti andrebbero raffrontate a quello che farebbero loro, e non a ciò che faremmo noi.
E che quindi, proprio in considerazione di contesto, storia e attualità, dovremmo imparare, per una volta e non di più, dagli americani a girare lo sguardo, e a giudicare non cos’abbia fatto chi detiene il potere, ma cosa farà chi si candida a detenerlo.
Certo, ci vuole coraggio nell’Italia del 2012 ad abbandonare la cultura del sospetto, che ci induce a chiedere all’altro dove fosse ieri, anzichè dove insieme potremmo essere domani.
Ma è proprio su questo, sull’immaginare un futuro politico con il M5S, che per quanto mi riguarda si consuma una frattura irrimediabile con Di Pietro.
Il suo domani, semplicemente, è molto diverso dal mio.
Quello che so invece è che domani vorrei essere al fianco di Hollande a rimettere in discussione il futuro dell’Europa, perchè la Francia altrimenti morirà di solitudine, e vorrei restituire al mio paese il ruolo di potenza, mi si scusi il termine, produttiva, anzichè di triste pascolo per le cavallette della rendita, e vorrei riparlare di welfare state come motore della crescita, anzichè come voce di bilancio da tagliare.
Vorrei parlare di patrimoniale e di reddito minimo, e restituire a chi è andato l’opportunità di tornare, anzichè veder partire in massa i migranti che fino a qui ci hanno accompagnato.
Ho pensato di poterlo fare col PD, nonostante oggi sostenga Monti e ieri abbia sostenuto anche di peggio, e confesso di aver pensato che quando si tratterà di ridiscutere il fiscal compact persino l’UDC potrebbe essere interessata, in nome di quella brutta cosa che si chiama interesse nazionale.
In fondo, dalla crisi, come da ogni prodotto umano, si può uscire, ma stavolta solo da sinistra, come ci dimostra il tentativo opposto di Monti.
Bisogna tuttavia provarci, a partire dalla considerazione che in mezzo non ci sta nessuna virtù.
Col PD? La speranza è l’ultima a morire.

sabato 4 agosto 2012

Cara sinistra, la partita è tutta nelle nostre mani. Troviamo il coraggio di scoprirle forti.


Il peggior nemico del cambiamento è l’assenza di chiarezza, l’impossibilità di cogliere nitidamente un progetto fra la polvere alzata nelle mille giravolte della politica.
Nella nebbia si improvvisano fari quelli che urlano grida secche anche se scomposte, mentre ogni accordo, mediazione, dialogo diventa sotterfugio e scambio, alimentando il senso diffuso di sfiducia e rancore, che radica il populismo.
Per questo, prima di ogni altra valutazione, va accolta con favore la novità dell’ultima settimana, l’alleanza finalmente dichiarata fra PD e SEL, aperta al contributo dei movimenti e delle migliori esperienze civiche, con l’obiettivo esplicito di governare il paese nell’alveo del progressismo continentale, e con primarie da tenere entro l’anno per trasformare in programma le velate suggestioni circolate in questi giorni.
Si sceglie quindi di chiudere l’esperienza Monti, nonostante l’insistente, martellante campagna di stampa a favore della continuità condotta da tutti i principali media italiani, senza anatemi, con i più sentiti ringraziamenti, o i più sinceri fischi, e di andare oltre, verso Parigi assai più che Berlino.
Questo dice la scelta di Bersani di aprire in compagna di Vendola, che nessuno, proprio nessuno, può accusare di timidezza nell’opposizione al governo in carica, la strada del centrosinistra.
Un centrosinistra esplicitamente aperto al dialogo politico, finanche alla collaborazione su temi di comune interesse, con l’UDC, tanto per dare un nome alle perifrasi bersaniane, in una temperie storica che, in particolare sul tema cruciale del significato europeo, non vede un lineare sereno all’orizzonte.
Ovvero l’inversione dell’approccio seguito nell’ultimo ventennio dalle correnti maggioritarie della sinistra italiana, D’alema per intenderci, che dall’accordo strategico col centro avevano fatto l’elemento centrale della loro linea su alleanze e programmi.
In questo percorso si esclude l’IDV, non per una preclusione sui temi programmatici, che quel partito ha condiviso con SEL, in quest’ultima fase del periplo dipietresco, ma per l’impossibilità di addensare una seria prospettiva di governo con chi, in tutta evidenza, non riesce ad abbandonare la tattica della guerriglia contro gli alleati, a mero scopo di visibilità.
Così si sarebbero potuti leggere i giorni a cavallo di luglio e agosto, senza eccedere in forzature ottimistiche, solo per stare a fatti e dichiarazioni.
Nell’Italia in cui il retroscena ha sostituito la cronaca, e quindi, per inciso, l’interpretazione giornalistica il libero giudizio sugli eventi, si è invece parlato d’altro.
L’alleanza di ferro è quindi fra Casini e Bersani, con l’obiettivo di un Monti oltre Monti, e Vendola, privato dell’usbergo di Di Pietro, si presta, per cinismo o ingenuità, alla parte dell’utile idiota, o dell’agnello sacrificale.
In queste tre righe, che riassumono due giorni di guerra lampo giornalistica, che prepara un conflitto di lunga durata, sta il tentativo del partito montiano, naturalmente alleato del narcisismo fustigatore travagliesco, di generare una profezia che si autoavvera, giocando su terrori e tremori dell’elettorato di sinistra di questo paese.
Nessuno è infatti tanto ingenuo da non vedere i rischi insiti in un tentativo tanto generoso quanto pericoloso, aperto a infinite incognite, prima fra tutte l’andamento della crisi finanziaria, che potrebbe riconsegnare alla politica un paese commissariato di diritto, oltre che di fatto.
Proprio per questo nessuno è nemmeno autorizzato a pensare che esistano oggi soluzioni precostituite, messe al riparo dalla prova elettorale.
Se il risultato di Vendola prima e soprattutto di SEL poi sarà positivo, al punto da raccogliere fino in fondo i voti della sinistra italiana, il nostro paese potrà conoscere una stagione analoga a quella aperta in Francia dai socialisti e da Hollande.
Se, come auspicato da tutti i fan della continuità di governo o della continuità di opposizione, andrà diversamente, con una vittoria mozzata del centrosinistra e SEL ridotta a livelli impalpabili, potremo goderci 5 anni di Monti e 5 anni di grillismo d’opposizione, ovvero 5 anni di Monti.
Da questo punto di vista SEL, un’idea di partito raccolta finora intorno alla figura del proprio leader, è la chiave di volta della politica italiana.
SEL, non Casini, che oggi non conta nulla e che ha in mano solo il jolly della sopravvivenza e dell’attesa.
Questo i nostri avversari l’hanno capito benissimo, e dopo aver provato a suggerirci la via dell’angolo dorato del fronte dell’opposizione, oggi tenteranno di sterilizzarci nei consensi, puntando a metterci sulla difensiva, a moderarci, ad additarci come traditori.
Noi non abbiamo nulla di cui difenderci, nessun bisogno di moderazione, la forza della coerenza, dell’insistita coerenza nel voler portare al governo la sinistra italiana, quella che siamo e quella che ancora non siamo.
Sarà una partita durissima, ma è quella che abbiamo scelto di aprire e giocare, e nessuno ci aveva garantito nulla di diverso.
Ora che è tutta nelle nostre mani ci servirà il coraggio di scoprirle forti.