martedì 30 ottobre 2012

Piccole lezioni siciliane


Dicevano che la Sicilia fosse il laboratorio politico del paese, e c’è da sperare che si sbagliassero.
Si è infranto il muro del 50% dei votanti, e certo non per estrema soddisfazione per l’andamento delle cose.
Crocetta, senza dubbio un uomo della sinistra, sarà presidente senza una maggioranza certa e in virtù dell’alleanza con l’UDC, unico partito a poter vantare una cinquantennale consuetudine col potere isolano in tutti i suoi significati.
La destra si frantuma per non morire e c’è da scommettere che non lo farà.
La sinistra si assomma in se stessa e muore, dimostrando di aver capito molto poco della fase, prigioniera della propria idea di essere la sola, naturale depositaria del desiderio di alternativa, se libera dal compromesso con moderati di ogni risma.
L’alternativa è invece il M5S, tanto alternativo da candidarsi ad essere il miglior alleato di ogni conservatore, con la sua attitudine a sequestrare dalle dinamiche della democrazia grandi quantità di elettori, per rinchiuderli nel recinto autistico del vaffa.
Ne vediamo già i primi risultati, con la dichiarata indisponibilità assoluta al dialogo con Crocetta, che rischierà di rinchiuderlo ulteriormente nei meandri delle giravolte gattopardesche.
Così ora ci toccheranno i peana dei Fioroni di turno sulle meravigliose sorti dell’alleanza PD-UDC, e l’ennesimo esame di coscienza della sinistra, per cui pare sempre normale dividersi ferocemente nella quotidianità, unirsi nella paura a due mesi dal voto, per tornare a dividersi nell’ora che segue l’ennesima, inevitabile sconfitta.
Ora, per quanto mi riguarda, l’UDC sarà anche un buon compagno di strada per chi apprezzi il genere, ma il 30% ottenuto da Crocetta in un quadro di desolante svuotamento di partecipazione non è certo un viatico entusiasmante, nè tanto meno riproducibile sul piano nazionale.
Allo stesso modo, si deve dichiarare chiusa definitivamente e senza rimpianti la stagione delle coalizioni del nulla della sinistra-sinistra, capaci di mettere insieme più sigle che voti e chiaramente incapaci, al di là dell’impegno e buona volontà dei protagonisti, di proporre un progetto e un immaginario comprensibili e adeguati ai tempi.
Chi voleva la prova della capacità di Grillo di riconnettere a se ogni ipotesi e sentimento di radicale alternativa al quadro esistente e quindi di proporsi come credibile protagonista delle prossime politiche oggi l’ha avuta.
Allo stesso tempo la destra potrebbe aver offerto l’anteprima di uno spettacolo di divisioni, opportunismi e si salvi chi può da mettere in scena nel 2013.
Cosa manca?
Manca il centrosinistra, ovvero una possibilità credibile di cambiamento reale del paese, che sappia e voglia imporsi non per stanchezza o debolezza altrui, ma perchè realmente convinto di poter vincere con i propri mezzi e le proprie idee.
Le primarie dovevano esserne il lievito. Finora rischiano di giocare l’effetto contrario, ma le le elezioni siciliane, a ben vederle, dovrebbero spingerci a rimetterle immediatamente sul binario giusto.
Il pericolo infatti è grande e occasioni e tempo troppo pochi per sprecarli in giochi di ruolo.

sabato 27 ottobre 2012

Berlusconi torna in scena, ma la trova già occupata


Appartengo alla schiera, suppongo piuttosto ridotta, di quanti in questo lungo ventennio si sono opposti a Berlusconi costantemente e completamente ignorando i suoi problemi giudiziari.
Non mi è mai interessata la ragione di fondo che l’avesse spinto in politica, nè l’andamento dei suoi processi.
Non ho mai apprezzato Travaglio e si suoi sodali e mi ha sempre preoccupato la degenerazione manettara di parte del popolo a cui sento di appartenere.
Di Berlusconi ho sempre temuto la tendenza a trasformare la politica in una grande fabbrica di consenso e il governo in uno strumento per mantenerlo, la promozione di un ceto politico inadeguato a funzioni diverse dall’applauso, l’intolleranza per la divisione e l’equilibrio dei poteri, la promozione di Bossi a statista e lo sdoganamento dello squallore post-fascista.
Gli imputo di avere una grande responsabilità nell’aver favorito lo sgretolamento sistematico di ogni base e struttura sociale nel nostro paese, alimentando un individualismo egotico che ci lascia oggi smarriti davanti alla necessità di recuperare un filo razionale di progetto collettivo.
Ha costruito una folla eterogenea di cinici e estasiati, allestito un governo come fosse un reality, determinato un’opposizione unita ancora e solo dalla sua persona.
Ci ha lasciato in eredità un paese spolpato dalle scorribande dei soliti noti e dei loro nuovi epigoni, dove tutto ha potuto diventare oggetto di scambio e di commercio, dove nell’assenza della sola ipotesi di una politica economica e industriale chi ha saputo e potuto farlo ha vinto il banco e abbandonato il tavolo, lasciando più poveri tutti gli altri.
Se ne è andato senza volerlo, ha minacciato il ritorno, ha lasciato definitivamente, salvo poi, per ironia o per calcolo, subire l’onta di una condanna che affogherà nel mare della prescrizione, ma che per il momento lo porta a riaffacciarsi sul palcoscenico del titanic.
La scena tuttavia non è più sua, ma della triplice eredità che ci ha lasciato.
Mario Monti e i suoi boiardi, generati dalla reazione all’incuria, al discredito e al collasso prossimo venturo, liberisti per procura e alfieri della post-democrazia tecnocratica, paladini della meritocrazia ereditaria per diritto dinastico.
Beppe Grillo, grande catalizzatore di ogni rancore individuale, tribuno della plebe e aspirante al ruolo sempre ambito di primo oppositore, nemico eletto di e da ogni potere costituito.
Matteo Renzi, il nuovo illusionista, l’uomo dalla battuta e dal sorriso giusto, buono per il palco e per il retro palco, che promette la rivoluzione senza i rivoluzionari e piace alla destra non perchè sia dei loro, ma perchè parla la lingua e indossa il personaggio del vecchio capo.
Monti, Grillo e Renzi, ovvero la coppia che fa sognare ogni potere conservatore italiano e il virus gentilmente donato alla sinistra.
Berlusconi non andrà in galera, ma se pure fosse non mi troverete fra quelli che festeggiano. 
Ho già altro di cui preoccuparmi.

mercoledì 24 ottobre 2012

Cosa vuole Matteo Renzi?


Cosa voglia Matteo Renzi da queste primarie non è chiaro.
Non parla di programmi, se non per allusioni e slogan, che valgono quanto le scritte sui palloncini pubblicitari.
Non si interessa di alleanze, non perchè riconosca un qualche valore a quelle già sottoscritte, ma perchè ha riscoperto d’un tratto il PD autosufficiente di veltroniana memoria, che è come dire il nulla.
Non si riconosce nelle regole, belle o brutte che siano, di un gioco a cui ha tanto desiderato partecipare da imporre una deroga ad personam allo statuto del suo partito.
Pretende confronti pubblici con Bersani, ma si rifiuta di partecipare a dibattiti con altri concorrenti, come a difendere una rendita di posizione da sfidante ufficiale gentilmente offertagli dalla grande stampa nazionale.
Ha parlato per un anno di rottamazione, solo di rottamazione e nient’altro che di rottamazione, salvo poi chiarire che si trattava di un espediente bieco, truce e volgare, e che nell’Italia delle mille gerontocrazie Veltroni e D’Alema potevano bastare.
E’ andato ad Arcore, perchè si deve parlare con tutti, e poi dai Finanzieri, perchè la politica non deve averne paura, e verrebbe da dargli ragione, se in entrambi i casi non l’avesse fatto a porte chiuse e finestre sigillate.
Gira l’Italia in camper, come un Grillo qualsiasi, ma non disdegna il jet, se si deve far presto, nè il Suv, se la schiena duole, ma di questo si potrebbe anche non parlare.
Ma rimane la domanda iniziale, ovvero perchè uno dovrebbe candidarsi ad una competizione di cui non condivide le regole, con una compagnia che non gradisce, sottraendosi ad ogni momento di confronto pubblico, e riportando indietro di vent’anni forma e sostanza del dibattito politico, quando invece il centrosinistra italiano avrebbe l’impellente necessità di restare ben agganciato al treno delle socialdemocrazie europee?
Si risponderà che è per smania di protagonismo, perchè l’occasione del momento è tale da sollecitare ogni ambizione, perchè il PD è nato male e quindi qualcosa deve sempre andare storto.
Oppure che in questo paese la paura che alcuni hanno della sinistra è tale da giustificare anche l’invasione di campo se la partita sembra persa, e se tutto finirà in malora tanto meglio, che un Monti alla bisogna non è mai stato difficile trovarlo e tanto meno lo sarà oggi che ha già finito il riscaldamento.
Renzi, che come Grillo propone a tutti noi l’ennesima dose di autoassoluzione consolatoria, non vincerà le primarie, ma ha già fatto abbastanza, con la gentile collaborazione dei bersaniani militanti, per inquinarle e renderle impraticabili.
Ma abbiamo un mese di tempo per riprendercele e tutta l’intenzione di farlo.

lunedì 22 ottobre 2012

Due primarie in una


Il momento iniziale delle primarie del centrosinistra ha evidenziato un’unica certezza.
Le primarie sono due, con agende e obiettivi diversi, diverso seguito sui media e protagonisti che si intrecciano.
La prima vede la partecipazione solitaria di Nichi Vendola, si svolge fra teatri, piazze e palazzetti affollati, percorre le strade della crisi globale e del suo possibile superamento, della nuova centralità del lavoro come via di uscita necessaria dal nichilismo finanziario, della modernità che stringe welfare, diritti, green society.
La seconda trova ogni giorno uno spazio nelle prime pagine dei grandi giornali e nell’informazione televisiva, muove grandi analisi e attenzioni, coinvolge Renzi e Bersani ed ha come unico punto di contesa chi e come comanderà nel PD.
Lo scontro si snoda fra contesa sulle regole e sulle prossime candidature, sul giudizio sul passato molto più che su un’idea di futuro, con le prospettive del partito sopravanzanti e di molto quelle del paese.
Questo dualismo rischia di nuocere alle primarie, riducendo a sterile lotta di potere quello che dovrebbe e può di certo essere un appuntamento decisivo per far maturare e vivere una credibile proposta di governo per il cambiamento, di cui l’Italia ha senza dubbio un disperato bisogno.
Nessuno sa ancora nulla di ciò che Renzi immagina per l’Italia, se non se stesso premier e D’Alema fuori dal Parlamento, insieme a una rimescolata di idee miracolosamente scampate al naufragio dei campioni sinistri degli anni ’90, naturalmente inattuali, ma ancora buone per una copertina.
Di Bersani è nota la storia, la volontà di rientrare nel solco attuale delle socialdemocrazie europee, ma senza esagerare e con un occhio alla specificità italiana, l’attitudine a considerare se stesso al comando, perchè è così che deve essere.
In comune hanno la volontà dichiarata di chiudere con Monti, ma sottraendosi al dovere di trarre un bilancio sull’esperienza del governo tecnico, come se questo fosse stato un evento naturale, e non un elemento di svolta con cui è obbligatorio confrontarsi, pena l’ulteriore decadimento del dibattito pubblico italiano.
Rimane Vendola, di cui è assolutamente chiaro e noto il giudizio sull’esecutivo in carica, sulle sue misure, e su ciò che di queste bisognerà fare, che esprime un’identità e un programma nitidi e un’opzione non reticente sul centrosinistra come spazio possibile dell’alternativa, ma che proprio per questo nel contesto dato rischia paradossalmente di apparire l’unico candidato delle primarie sbagliate.
Il problema è che primarie indirizzate e condotte secondo l’agenda Renzi non sono solo inutili, ma dannose, perchè come la moneta cattiva scaccia quella buona, un dibattito sul nulla alimentato da conflitti intestini impedisce di mettere a fuoco il problema centrale, che è e dovrebbe rimanere il ruolo europeo e quindi italiano nella crisi economica globale.
Per questo il centrosinistra, come ipotesi autonoma e innovativa di governo, uscirà più debole da primarie che si ostinino a pestare acqua nel mortaio del rinnovamento estetico, delle strizzate d’occhio ad un’antipolitica autoassollutoria, degli scontri autoreferenziali sulle regole.
Per questo Bersani, come segretario del primo partito della coalizione e autorevole, aspirante candidato premier, deve dare rapidamente una sterzata, iniziando a parlare di programmi e soprattutto a privilegiare il confronto con chi, come Vendola, di questi parla da sempre, anzichè accettare il gioco di chi lo vuole costantemente impegnato nella marcatura del sindaco di Firenze.
Le primarie forse rimarranno due comunque, ma sarà almeno più chiaro in quale si gioca il destino del centrosinistra e forse un poco dell’Italia.

giovedì 18 ottobre 2012

Ancora TINA. Oppure Vendola


La nostra vita è fatta di scelte.
Scegliamo ogni giorno a chi sorridere e per chi valga la pena piangere, a chi donare il nostro tempo e da chi farcelo rubare, quali scarpe indossare e che cosa mangiare, se incontrare un amico o assaggiare la solitudine.
Scegliamo con chi vivere e vorremmo poter scegliere il momento della nostra morte, e in ogni momento oscilliamo fra l'abbandono e la lotta, sia per un'idea, per un figlio, per il nostro futuro.
Poi solleviamo lo sguardo sulla politica e la strada che ci viene indicata è diritta e senza vie di uscita.
Non c'è alternativa al precariato che consuma le vite e le generazioni, al lavoro minacciato e senza diritti, alla fatica di un tempo che non prevede il riposo, alla dignità offesa ogni volta che si china la testa.
Non c'è alternativa alla dissoluzione dello stato sociale, all'espansione infinita delle spese militari, alla demolizione della scuola pubblica e di tutti, alla negazione del diritto alla salute. 
E nemmeno esiste un'alternativa al potere irresponsabile dei soliti noti, alla fuga di chi ha la forza di andare e non ha più quella di restare, al cancro delle mafie, ad una crisi che giorno dopo giorno consuma la storia dei nostri padri e il nostro presente.
Figurarsi se si può pensare ad un’alternativa a Monti o a chi per lui, all’Europa del rigore che sa di funerale, ad un’Italia piccola e immersa nel suo rancore e nelle sue paure, al quotidiano giudizio divino dei mercati, alla mano invisibile e inflessibile dello spread.
La nostra vita è fatta di scelte, ma quando è in gioco la vita stessa vorrebbero che la consegnassimo all’inevitabile.
Oppure Vendola, perchè è così che noi oggi diciamo che la democrazia è molto di più  che  aggiungere una spezia ad un piatto già cotto e la libertà la premessa di qualsiasi domani.
Noi non ci consegnamo alla ragione di quelli che avevano torto e che ancore pretendono di far pagare il prezzo dei loro errori a chi paga da sempre.
Non ci rassegniamo alle mezze misure, ai diritti surrogati, alle parole sbiadite di un ceto politico figlio di troppe sconfitte o mai sceso in campo.
Non vogliamo rottamare nessuno, perchè abbiamo troppo rispetto della vita e della storia di ognuno, ma sappiamo quanto la storia possa pesare fino a rendere inerti e consigliare il commiato.
Vogliamo salario e diritti, perchè ci piacciono le parole antiche, e uguaglianza, solidarietà e giustizia sociale, perchè la modernità finisce nella loro scomparsa.
Amiamo la complessità, che ci costringe a studiare e coltivare il dubbio, a sperimentare percorsi inediti, a rifiutare ogni tipo di vaffanculo, che, detto sottovoce, se non è fascista non ci va lontano.
Crediamo che il centrosinistra sia ciò che di meglio si possa offrire al paese, ma che l’Italia meriti di più di un usato sicuro o di un camper che viaggia al ritmo stanco degli anni ’90, spacciando per nuovo ciò che era già vecchio 20 anni fa.
Se non c’è alternativa alla strada che corre verso il precipizio, non si tratta di rallentare, nè di sperare che qualcuno costruisca un ponte, ma di assumere fino in fondo il coraggio e la forza di aprire una via nuova.
Vogliamo Vendola presidente del consiglio. Per noi, molto prima che per lui.

lunedì 8 ottobre 2012

Anni '90. Oppure Vendola


I ‘90 li ricordo per gli amici, la musica, i locali, Clinton, Blair, l’Ulivo e Berlusconi, e io che stavo dall’altra parte, i miei vent’anni, la fine della storia, il liceo e l’Università, amori primitivi, la patente, macchine improbabili, il muro crollato e la polvere sospesa. 
In altre parole sono stati i miei anni.
Anni belli, colmi di ansie, dubbi e possibilità. Anni in cui poteva esistere il futuro, anche se poi Kurt Cobain si suicidava, la Jugoslavia si suicidava, e in Kosovo si suicidava anche l’etica delle sinistre mondiali.
Noi che li abbiamo attraversati siamo gli ultimi scampati all’onda del precariato o i primi sommersi. Questione di tempi stretti, fortuna e scelte di vita. A chi è venuto dopo è mancato anche questo.
Siamo quelli che hanno iniziato una strada che doveva avere delle svolte, che si chiamavano casa, famiglia, carriera, benessere, e molti di noi sono ancora in attesa di vederle.
Abbiamo firmato una cambiale che si chiamava mancanza di alternativa, e siamo ancora in attesa di incassarla. 
Non ci hanno insegnato a lottare, e come avrebbero potuto? I nostri padri erano sconfitti, sconfitti e ancora sconfitti. Qualcuno taceva per la vergogna, qualcuno si era persino convinto di aver vinto.
E’ a noi che parla Matteo Renzi.
Ci dice che non abbiamo sbagliato, ma che semplicemente ci hanno fregato. Che non siamo stati deboli, ma vittime della fiducia negli adulti, che intanto si sono fatti anziani. Che nulla è perduto, perchè se ci libereremo di loro ci sarà posto per noi.
Parla alle nostre frustrazioni di eterne promesse, a chi pensa che da sempre sia il suo momento, a chi non riesce nemmeno a immaginare il noi, ma vorrebbe tanto risollevare il suo io dalle paludi delle promesse mancate.
E’ un Blair fuori tempo massimo, ma in fin dei conti parla ad una generazione fuori tempo da sempre, che sogna la promozione che spetta a chi ha studiato, fatto i compiti e aspettato in silenzio il proprio turno, che non è mai arrivato, perchè il paese si è fermato, e quando un paese prima si ferma e poi precipita all’indietro non c’è promessa che tenga.
Parlare di meritocrazia in un paese in cui una giovane madre meridionale abbia come unica certezza la disoccupazione significa agitare fuochi fatui nella tempesta.
Non è un problema di merito, ma di disuguaglianza, e questo Renzi e quelli come lui non lo capiranno mai, perchè è fuori dal loro schema, estraneo ad uno sguardo che prevede solo lo specchio.
Noi, noi che abbiamo trent’anni ma più spesso vediamo i quaranta di quello specchio dobbiamo liberarci, e parlare onestamente a noi stessi.
Ci ha fregato l’individualismo, ci ha fregato il cinismo, ci ha fregato quella maledetta idea che la storia fosse finita, e che quindi ognuno restasse solo con se stesso e potesse starci bene.
Ci hanno fregato i soldi dei nostri genitori e nonni, molto più che la loro presenza sulla scena, la comodità di lasciar fare e intanto aspettare che la festa continuasse.
Le feste, si sa, finiscono sempre all’improvviso, quando le luci si accendono e la scena si rivela spoglia e sporca.
Riprenderci il futuro non sarà questione di rottamare il deejay, ma di uscire dal locale e ricominciare a vivere, riconquistando palmo a palmo un mondo che intanto il capitale si è fottuto.
Ho detto vivere. Avrei dovuto dire lottare.
Senza credere a chi all’uscita cercherà di venderci, per sua ammissione, una macchina usata.
Possiamo arrenderci a chi ricicla un’idea o a chi non ne ha mai avuta una. Oppure Vendola.