mercoledì 16 maggio 2012

La terra trema (parte prima)


L'Italia è un magma che ribolle sotto una crosta sempre più sottile, in un'Europa trascinata a passi larghi verso il caos.
Possiamo continuare a fingere di non vedere, tenere lo sguardo fisso all'indietro sulle immagini rassicuranti del passato.
Abbiamo ormai tanti passati da poterci permettere il lusso di aggrapparci alla memoria di quello che preferiamo.
Oppure provare a guardare in faccia il presente, come prima condizione per poter pensare un qualsiasi futuro.
Lo spettacolo è soffocante.
L'Italia è in recessione e lo sarà per alcuni anni. La disoccupazione aumenta di conseguenza, e in relazione ai giovani raggiunge percentuali da crisi sociale. La struttura produttiva del paese si sgretola quotidianamente, per assenza di consumi, di settori trainanti, di investimenti.
Siamo ricchi, ma la ricchezza sta diventando una catena dorata che trascina a fondo, se è vero che produce solo rendita e immobilismo sociale, in assenza di una politica fiscale che determini diverse dinamiche.
L'Europa, che per 60 anni ha rappresentato una garanzia di pace e una promessa misurabile di miglioramento delle condizioni di vita, si è tramutata nel rigido guardiano degli interessi del capitale, tedesco in primo luogo.
È come una pentola a pressione dallo sfiato sigillato. Regolare la fiamma non servirà a nulla. Lo scoppio è assicurato.
In questo quadro che esista una domanda di cambiamento diffusa, rabbiosa, frustrata è il minimo che ci si possa aspettare. 
È così che nascono e crescono in una notte populismi e qualunquismi di diverse matrici, ma che hanno in comune l'idea di un ripristino della sovranità popolare, anche se su basi che ne riecheggiano più o meno consapevolmente  la versione schmittiana.
L'idea che il potere politico possa promuovere d'imperio un cambiamento radicale, a patto che sia liberato dalle pastoie di un ceto politico che ha svenduto perché corrotto il diritto dei cittadini alla felicità.
È un'atmosfera pericolosa, torbida, weimariana, con le piazze virtuali che hanno preso il posto di quelle reali nell'agire la violenza politica, senza tuttavia mutarne minimamente il segno.
Si deve tuttavia avere la consapevolezza che ad una domanda confusa di cambiamento non si può opporre una sdegnata offerta di conservazione, condita con dosi omeopatiche di demagogia a uso e consumo di un popolo che si pretende bue.
Nè si possono mostrare ginocchia tremolanti e desiderio di fuga, e ancor meno spirito gregario e tentazioni di saltare il fosso.
C'è bisogno invece di politica, intesa come progetto collettivo e senso di appartenenza, di proposte credibili per uscire da una crisi che non sopporta risposte ordinarie, di un nuovo intellettuale collettivo. 
In due parole, di coraggio e credibilità.

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