martedì 25 settembre 2012

Le brutte storie finiscono peggio


Le brutte storie finiscono peggio. 
Se qualcuno cercasse una conferma, passasse in rassegna i frame della Seconda Repubblica italiana, per chiedersi poi quanto attaccamento alla democrazia debba avere un popolo per sopportare l’urto di un ventennio iniziato con Tangentopoli e finito con il crepuscolo dei cacicchi berlusconiani e affini.
Il pluridecorato Roberto Formigoni, la fasciosindacalista Renata Polverini, il Lombardo di Sicilia, succeduto all’uomo d’onore Toto Cuffaro, e poi gli Scopelliti, i Caldoro, i Cappellacci, e tutta la risma dei signori delle preferenze, che servono anche quando non ci sono, e i beneficiati di ogni tipo, fra nomine e recuperi.
Un esercito di custodi del favore e del privilegio, dispensatori di regalie e gran costruttori di grovigli di interessi più o meno leciti, dove tutto si tiene e si confonde, riportando il potere alla sua natura più bassa, quello di collante fra interessi individuali e di gruppo, senza alcuna ambizione se non quella di una ricca, eterna sopravvivenza.
Berlusconi è stato il gran maestro, il trait d’union fra le pratiche e culture più sordide della prima Repubblica e il grottesco banchetto che le è succeduto.
Ha teorizzato che la politica fosse il piccolo pascolo per uomini dappoco ma dai grandi appetiti, perfetti per garantire una fedeltà sconfinata, e a questo l’ha ridotta, senza incontrare ostacoli insormontabili in una sinistra sempre più priva di anima e passione, se non quella generata dall’ebrezza delle lotte intestine.
Abbiamo creato una classe dirigente, perchè è così che purtroppo va chiamata anche l’intendenza, quando le viene affidata la guida del convoglio, senza nerbo, spirito e cultura, eppure fortissima, nel creare le condizioni della propria affermazione.
Ora la vediamo affondare nel discredito e nell’insulto, lasciandoci in balia dei commissari tecnici, a cui non tocca nemmeno l’onere della prova, messi davanti allo spettacolo quotidianamente offerto da cricche che hanno la spudoratezza di autodefinirsi partiti.
A noi che abbiamo resistito, e ancora resistiamo, resta la rabbia e lo sconforto di sentirci ancora una volta diversi, quasi che per la sinistra di questo paese esista una condanna perpetua all’alterità.
Diversi perchè non abbiamo rubato, abbiamo provato e costruire sprazzi di buona politica, abbiamo scarpinato per mille piazze, tentato l’assalto ai piccoli cieli del presente, investito noi stessi, che era l’unico capitale di cui potessimo disporre.
Abbiamo persino continuato ad attaccare i nostri manifesti, distribuito i nostri volantini, occupato i social networks con i nostri pensieri. 
E oggi pare che fossimo rimasti soli a farlo, e allora più che fessi potremmo sentirci pure un po’ orgogliosi.
Però non è di noi che parla la Repubblica che ci lasciamo alle spalle, col timore che in quella che viene sarà forse difficile entrare, ma degli altri, che ci consegnano un ventennio perduto per tutti, tranne che per loro.
Come il morto proveranno ad afferrare il vivo, con l’aiuto non disinteressato di chi oggi mette nel denunciarli la stessa energia prima usata per coprirli, e ci proveranno con tutte le loro forze, perchè se siamo tutti colpevoli, saremo tutti assolti, o almeno in purgatorio.
Andò più o meno così, quando questa brutta storia cominciò, e dopo vent’anni siamo ancora qui a chiederci perchè.
Quindi i vivi è bene che comincino a correre, e anche piuttosto rapidamente.

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