venerdì 6 aprile 2012

Triste fine di un uomo in canottiera


Lo confesso. Il sipario che cala tra i fischi su Umberto Bossi mi suscita tristezza e pena, come quella che può provocare la fine ingloriosa di un illusionista ormai troppo vecchio per i suoi trucchi.
Di trucchi la Lega d’altra parte ha sempre vissuto, della capacità speculare e complementare a quella berlusconiana di raccontare e far vivere un mondo inesistente, di costruire se stessa su immagini d’accatto sotto le quali nascondere la prosaica realtà di affarucci, miserie e cialtronerie.
Erano le mille leghe degli esordi, quelle dei nomi dei paesi cambiati a spray nelle antiche forme dialettali, dell’indipendentismo antiromano, schiacciate dalla campagna d’annessione bossiana.
Poi ci furono gli anni gloriosi del cappio in parlamento, di Roma ladrona, del celodurismo, che nel retro vedeva i maggiorenti leghisti pretendere la propria parte della maxitangente, con la spregiudicatezza del neofita, spavaldo nel desiderio di non essere da meno.
Seguì la stagione dell’antiberlusconismo, l’invenzione della Padania, i celti, le ampolle, il dio Po e i riti pagani, il parlamento del Nord, con tanto di elezioni. Non ricordo chi guidasse Caccia e Pesca Padana, ma esisteva.
Senza dimenticare il desiderio di scimmiottare i partiti antichi, quelli delle feste, della militanza, delle sezioni, fino al corollario di sindacato, cooperative, una banca. 
La Lega non ebbe bisogno di avere una banca. 
Se ne costruì una, che fallì miseramente, trascinando con sè i risparmi dei militanti, e soprattutto aprendo le porte del ritorno alla ricca casa berlusconiana, con la virata a destra che la portò a divenire un orrendo impasto di razzismo, fondamentalismo e particolarismo virulento.
Bossi nel frattempo usciva di scena, lasciando il posto ad un simulacro esibito come un totem minaccioso dalla Famiglia contro i nemici interni, non prima di averne venduto le spoglie a Berlusconi, che i voti leghisti, costruiti a colpi di xenofobia urlata e praticata, utilizzerà per costruire la propria impunità.
E finiamo così, con le dimissioni di un uomo che dopo aver costruito un partito di carta, le cui fortune elettorali hanno coinciso per due decenni con la capacità di incarnare la peggiore moda del momento, si ritrova a discutere di come il figlio l’abbia messo nel sacco, fregandolo prima sulla laurea e poi sui soldi, circondato da un codazzo di comparse da televisione di provincia, occasionalmente promossi a classe dirigente del paese che disprezzano.
Con Bossi esce di scena la Seconda Repubblica, che in fin dei conti sui suoi furori era nata, prima di germogliare nel catodo berlusconiano, ovvero l’idea che il futuro di un paese si possa costruire in un frullato di slogan buoni per la televisione, toni urlati, messinscene mediatiche, a nascondere la costruzione opaca di piccole e grandi fortune private.
Il risultato è sotto i nostri occhi, dopo venti anni di distruzione sistematica della possibilità di costruire e far emergere una classe dirigente vagamente degna di questo nome.
Con il lascito finale di un governo di ombre incarnate, cresciute negli interstizi del sistema, improvvisate in ruoli non propri e alimentate dall’ideologia algida dell’accademia, pronte al comando in un paese svuotato.
Indeciso oggi se chiedersi perchè sia giusto licenziare per ingiustificato motivo o perchè abbia dovuto pagare con il proprio denaro la fuoriserie di un Bossi junior.

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